Lo sbarco nel 2016, l’articolo di StrettoWeb. La storia di Mounjir: “Reggio Calabria mi ha salvato, voglio tornare per visitarla”

L'incredibile storia di Mounjir: sbarca a Reggio Calabria nel 2016, ricostruisce il suo passato grazie a StrettoWeb e 8 anni dopo vorrebbe tornare in città per visitarla

StrettoWeb

Buongiorno, sono Mounjir Diallo, un ragazzo di origini guineane sbarcato a Reggio Calabria il 2/08/2016 dalla nave di salvataggio Cigala Fulgosi“. Inizia così una delle centinaia di e-mail che ogni giorno arrivano nella casella di posta di StrettoWeb. Fin dalle prime righe si capisce subito che questo messaggio è diverso dagli altri. Sono parole di ringraziamento per un articolo lontano ormai 8 anni ma che ha aiutato un ragazzo a ricostruire i tasselli di un passato difficile, fin qui nebuloso, ma che oggi appare un po’ più chiaro.

Imbattutosi in un articolo di StrettoWeb che raccontava lo sbarco dei migranti del 2 agosto 2016 dalla nave Cigala Fulgosi, Mounjir ha riconosciuto se stesso e alcuni suoi compagni di viaggio. Fino a quel momento non ricordava dove fosse sbarcato una volta arrivato in Italia, a causa delle difficoltà di un viaggio, durato un anno, che dalla Guinea lo ha portato fino a Reggio Calabria, città nella quale adesso vorrebbe fortemente tornare come turista.

Contattato dalla redazione di StrettoWeb, il giovane ragazzo africano ha voluto raccontare la sua storia ai nostri microfoni: un lungo viaggio fatto di sofferenza, paura e speranza, concluso con uno splendido lieto fine.

Dalla Guinea alla prigionia in Libia

La storia di Mounjir inizia in Guinea, stato che ha dovuto abbandonare a causa di alcuni problemi personali: “avevo solo 16 anni appena ho lasciato la mia casa. È passato un anno prima di arrivare in Calabria. Sono partito da solo. Ho attraversato il confine dalla Guinea al Senegal, avevo molta paura, dovevo scappare il più lontano possibile“.

‘Momo’ ha attraversato il deserto poco più che adolescente, da solo, per poi arrivare in Libia.Ho attraversato il deserto, uno dei miei compagni di viaggio, un ragazzo camerunese, è morto in seguito a un incidente che abbiamo avuto con il nostro pick up. – ha raccontato – Abbiamo cercato di fargli un funerale dignitoso. Arrivati in Libia siamo stati venduti. Ci hanno portato in un campo di prigionia. Ci hanno fatto spogliare, ci hanno chiesto nome, cognome e un numero di telefono per chiamare le famiglie così loro possono chiedere il riscatto. Ho cercato alcuni ragazzi della Guinea e gli ho chiesto da quanto fossero lì. ‘Due anni’, mi hanno risposto. Ho pensato: ‘da qui io non ci esco più…’“.

La prigionia e la fuga

Mounjir è tornato con la mente ai momenti della sua prigionia: “in questa prigione eravamo circa 400 persone, ci davano da mangiare ogni 2-3 giorni: un piatto di riso per 11 persone, mangiavamo con le mani la nostra piccola porzione. A parte c’erano anche le donne: chi non poteva pagare veniva fatta prostituire”.

Provare a scappare sembrava impossibile: ai fuggitivi si sparava a vista. L’unico modo per tornare libero era dietro un pagamento di denaro. “Loro (i carcerieri, ndr) ti chiamano per farti parlare con la tua famiglia. La chiamata dura 30 secondi nei quali loro ti menano. In quel modo i tuoi genitori capiscono che sei davvero in pericolo e finiscono per vendersi qualsiasi cosa per pagare il riscatto e tirarti fuori da lì. – racconta Mounjirio ho rifiutato a chiamare i miei genitori per un periodo. Poi ho provato a chiamare mio padre: iniziata la chiamata mi hanno picchiato così forte che non sono riuscito a dire nemmeno una parola“.

Passato un tempo difficilmente quantificabile come prigioniero, Mounjir ha deciso di provare a scappare: “arrivato il periodo del Ramadan mi sono detto: provo a scappare, se mi sparano e muoio almeno smetto di soffrire. C’era un bagno dal quale si poteva provare a scappare. Una notte, mentre i nostri carcerieri erano andati a dormire, abbiamo forzato le lamiere e siamo riusciti a fuggire. Ci hanno scoperto, hanno iniziato a sparare ma siamo riusciti a scappare, ognuno in direzioni diverse. Dei miei compagni di fuga non ho più visto e sentito nessuno“.

L’incontro che gli ha cambiato la vita

Scappato dal campo di prigionia, ‘Momo’ non aveva un luogo dove andare, era solo e spaventato. Durante il suo girovagare ha incontrato un contadino di nome Mohamed, un uomo che gli ha cambiato la vita. “All’inizio avevo paura ma mi ha rassicurato. Mi ha dato vestiti, cibo e io in cambio lo aiutavo lavorando. In Libia era tempo di guerra, per i giovani non c’era un domani. Un giorno mi ha detto: tu meriti un futuro, ti aiuto ad andare in Italia“, ha spiegato ai nostri microfoni.

Un giorno è arrivato un uomo, armato, a bordo di un pick up, per prelevare Mounjir. “Mi hai venduto vero?“, racconta di aver detto il ragazzo al contadino. La scena, in effetti, l’aveva già vissuta al suo arrivo in Libia. “No, fidati di me“.

Trasportati in un altro capannone per diversi mesi, il ragazzo e altri migranti vengono lasciati senza cibo per poter perdere peso e poter attraversare il mare sui gommoni: meno viaggi, più persone trasportabili. “Andavamo in un mattatoio lì vicino, prendevamo gli scarti dei polli per sfamarci. Un mio amico sapeva anche cucinarlo in maniera spettacolare… – ricorda – Avevo perso la cognizione del tempo, non sapevo più che giorno e che mese fosse. Avevo anche chiamato Mohamed per dirgli: ‘perchè mi hai fatto questo? Portami via da qui’. Lui continuava a dirmi di fidarmi e che avrei avuto un futuro se mi fosse andata bene“.

Il viaggio della speranza: su un gommone verso l’Italia

Una notte sono arrivati, ero sulla loro lista, hanno gonfiato 3 gommoni e siamo partiti da Tripoli alla volta dell’Italia. Ti indicano la strada: ‘l’Italia è quella, vai sempre dritto e arrivi’. – racconta – Ma il mare non era tranquillo. Il gommone si era bucato, tutta la notte abbiamo imbarcato acqua, ci siamo praticamente fermati in mezzo al mare. Abbiamo visto un elicottero, abbiamo provato a richiamare la sua attenzione ma sembrava non averci visto. Poi è passato una seconda volta e abbiamo visto una grossa nave venire nella nostra direzione. Sembrava vicinissima eppure non arrivava mai. Ci hanno salvati e trasferiti nella nave che ci ha portati poi in Italia il 2 agosto 2016“.

Dell’arrivo in Italia Mounjir ricorda poco: “ero stanchissimo, purtroppo ricordo solo dei frammenti. Ho chiesto subito che giorno fosse, avevo perso la cognizione del tempo. Era passato un anno. Ci hanno accolto benissimo. Abbiamo attraversato il Lungomare, ci hanno schedato e sono stato trasferito prima a Torino e poi in provincia di Cuneo. Da lì ho iniziato la mia vita in Italia: ho studiato, lavoro come autista di camion, ho una compagna con la quale, da qualche mese mi sono messo in testa di ricostruire i ricordi del mio arrivo in Italia“.

Mounjir è tornato anche a parlare con i suoi genitori:li ho sentiti solo un anno dopo, una volta arrivato in Italia. Mio padre stava male, era ricoverato in ospedale, io non lo sapevo. Lui pensava fossi morto, dopo quella telefonata che gli avevo fatto dal campo di prigionia. Solo mia madre ha continuato a sperare fossi vivo. Quando l’ho chiamato, mi ha detto: ‘ok, sono guarito. Possiamo lasciare l’ospedale’. È stato bellissimo. Ora ci sentiamo tutti i giorni, mio padre ha anche imparato a usare le videochiamate (ride)”.

L’articolo di StrettoWeb: il puzzle si completa

Mounjir ricordava poco o nulla del suo arrivo in Italia, non conosceva il punto esatto del suo sbarco, né il nome della città. “Sono una persona molto ostinata, eppure ero quasi sul punto di arrendermi. Non riuscivo a trovare nulla che mi aiutasse a ricordare quei momenti. Poi ho visto l’articolo di StrettoWeb, in una foto ho riconosciuto un mio amico, abbiamo fatto il viaggio insieme. L’ho sentito, gli ho inviato la sua foto: si è messo a piangere“, racconta.

Avevo i ricordi confusi ma mi sono sempre detto: ‘io in Calabria ci devo tornare’. Ci avevano accolto benissimo, quello non potrò mai dimenticarlo. La mia intenzione è tornare a Reggio Calabria, rifare il mio percorso verso il Lungomare, ma questa volta da turista. Per questo sono tanti mesi che ho provato a fare delle ricerche e finalmente ce l’ho fatta. Inoltre, la famiglia della mia ragazza ha origini calabresi e so che la gente lì è molto accogliente“, conclude Mounjir con la promessa di tornare in riva allo Stretto “questa volta senza paura e fame, ma come una persona nuova“.

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