Il cappio su De Gennaro: così rischiano di affossare la futura legge sulla tortura

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La giustizia è un optional: una campagna mediatico-politica vuole gettare fango sull’ex capo della Polizia

Foto LaPresse
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Il caso De Gennaro rischia seriamente di assumere toni grotteschi. Esiste, nell’arena politica, un’area più o meno variegata che chiede a gran voce le dimissioni del numero uno di Finmeccanica. La sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per le torture perpetrate all’interno della scuola Diaz ha concesso a esponenti di diverse realtà, da Sel a Orfini passando per i 5 Stelle, di rimettere in discussione la figura di questo funzionario dello Stato, all’epoca alla guida delle forze di polizia. Ne viene fuori un siparietto paradossale: in nome di una clamorosa violazione del diritto, basata su violenza ed efferatezza da parte di alcuni agenti, se ne perpetra un’altra, chiedendo la testa di De Gennaro con buona pace delle assoluzioni sopraggiunte nelle sedi giudiziarie.

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Il ragionamento alla base di questo perverso assioma è semplice: alla scuola Diaz non si registrarono degli abusi compiuti da singoli agenti; vi fu, semmai, una cabina di regia volta ad instaurare una cruenta operazione di macelleria messicana. Se così fosse, De Gennaro sarebbe una persona spregevole. Ma così, per fortuna, non è. Lo ha ribadito a chiare lettere Cantone, spiegando come l’assoluzione – in uno Stato di diritto – non sia un fatto marginale.

Ma c’è di più: la canea che sta montando attorno al vertice di Finmeccanica rischia di inquinare una battaglia legale che soltanto i radicali, da 30 anni a questa parte, hanno combattuto. E attenzione perché avere una seria legge sulla tortura è una operazione tutt’altro che semplice. Mi spiego: pensare, nell’anno del Signore 2015, che tale fattispecie di reato si estrinsechi solo nella violenza fisica vuol dire ragionare in termini fuorvianti. Cito una fonte insospettabile: il vignettista Vauro. Questi, in polemica con Giorgia Meloni, nel salotto de “L’aria che tira” ha posto stamane l’interrogativo da jackpot: «Se un funzionario di polizia ti fa spogliare e comincia a girarti intorno cantando “uno, due e tre viva viva Pinochet, quattro, cinque e sei solo morte per gli ebrei”, è o non è tortura?». La risposta appare scontata, con buona pace delle rimostranze espresse dal leader di Fratelli d’Italia.

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Ora, però, se a ventilare minacce non è un agente in divisa ma un magistrato, che si fa? Si parla da giorni di quella stagione ambigua che fu Tangentopoli, in ossequio alla nuova serie tv prodotta da Sky. Solo pochi intellettuali faziosi possono negare alcuni eccessi compiuti da un pool che utilizzava con spregiudicatezza il meccanismo della carcerazione preventiva. Ecco, se uno scenario simile dovesse ripetersi, l’eventuale condotta delle autorità inquirenti dovrebbe rientrare nella legge che verrà e che tutela le vittime oppure le mele marce della magistratura, a differenza di quelle assunte in polizia, potranno godere di un regime speciale? E’ una obiezione non di circostanza, che dovrà essere attentamente vagliata in Parlamento. Altrimenti si corre il rischio di utilizzare metri e misure differenti all’interno delle rappresentanze dello Stato, un caso di schizofrenia legislativa con ogni evidenza ributtante.

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