Reggino, Messinese o meglio, Strettese?

Riflessioni sulla propria identità da parte di un abitante della sponda calabra dello Stretto (che non è siciliano e non si sente neppure calabrese)

StrettoWeb

di Alfonso Mazzuca – Molti mi chiedono perché mi definisco “strettese”, piuttosto che calabrese.

Se avrete la pazienza e la curiosità di leggermi lo comprenderete.

Potrei dire, come più volte ho già detto, perché son nato e vivo in prossimità dello Stretto di Scilla e Cariddi, esattamente come questo luogo è stato definito da un grande studioso: il Prof. Pasquale Amato.

Oppure, ancor più semplicemente, potrei dire perché non mi sento effettivamente calabrese. E basta.

Tuttavia, non mi è possibile sottacere che le ragioni di questo mio diverso sentire sono molto più articolate e profonde.

Invero, dopo lo scippo del capoluogo (1970) alla mia città (Reggio Calabria, che è la più antica – fondata col nome di Reghion dai Calcidesi nel 730 a.C. – nonché la più grande e la più bella di tutte le città calabresi messe assieme), con tutte le conseguenze amministrative, economiche, sociali, commerciali, turistiche, ecc., da reggino non posso più sentirmi calabrese, anche perché – ripercorrendo la storia – dovrei dire che non lo sono mai stato, atteso che la Calabria in realtà non esiste. Non è mai esistita; è semplicemente una recente invenzione amministrativa, peraltro utilizzata scientemente per saccheggiare la mia città!

E ciò non è una mia fantasia, se è vero – come è vero – che di Calabrie ce ne sono sempre state ben più d’una.

Del resto, il termine “Calabria” fu usato solo dai Bizantini che, governando sino all’anno Mille, svilupparono una civiltà che intrecciò le sue vicende sia con gli Arabi e sia con i Longobardi, così favorendo la fusione di popoli totalmente diversi.

Infatti, le suddivisioni amministrative di Costantinopoli videro crescere la loro autonomia proprio col ducato di Calabria, la cui capitale fu dapprima Otranto e successivamente Ῥήγιoν (Rhéghion), cioè Reggio, conquistata nel 536 d.C. dalle truppe bizantine guidate da Flavio Belisario (Φλάβιος Βελισάριος), uno dei più grandi condottieri della storia dell’Impero romano d’Oriente.

Giova evidenziare che il nome Ῥήγιoν (Rhéghion) è derivato dal verbo greco “ρήγνυμι” (reghnümi), che significa rompere o spezzare, per rammentare la scissione geologica della Sicilia dal resto della penisola (siamo stati sfortunati a non finire dall’altra parte).

Orbene, finito l’Impero romano, la “Calabria”, ovvero quella parte di territorio denominata tale, perse completamente la sua unità politica, dividendosi in diverse zone di influenza.

Sotto il dominio normanno, il regno di Napoli venne diviso in circoscrizioni amministrative chiamate “Giustizierati” che, successivamente, Bonaparte riformò attuando una ripartizione territoriale sulla base del modello francese, sopprimendo così predetto sistema dei giustizierati.

Il territorio venne organizzato in due province: quella settentrionale, denominata Calabria Citra (con capoluogo Cosenza) e quella centro-meridionale denominata Calabria Ultra (con capoluogo l’odierna Vibo Valentia).

Le differenze fra le varie zone erano notevoli, determinate anche dall’isolamento tra esse per ogni difficoltà di comunicazione e di scambi culturali o commerciali, oltre che dalla crescita della popolazione nella parte più meridionale (Ultra).

Un tentativo di ridurre l’isolamento avvenne tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’’800, sotto il dominio dei Borbone e dei Francesi, allorquando venne realizzata la strada denominata “carrozzabile delle Calabrie”, che seguiva l’andamento dell’antica via consolare romana.

Nel 1816 i Borboni diedero un nuovo assetto amministrativo, addirittura dividendo la Calabria in tre parti: “Calabria Ulteriore Prima” con capitale Reggio, “Calabria Ulteriore Seconda” con capitale Catanzaro e “Calabria Citeriore” con capitale Cosenza.

Con la fine della dinastia borbonica finì pure la divisione amministrativa delle tre Calabrie, ma rimasero nette le differenze che il trascorrere dei secoli avevano alimentato nella popolazione.

Giuseppe Isnardi (Sanremo, 13 agosto 1886 – Roma, 7 giugno 1965) – eccellente storico, geografo, educatore, nonché meridionalista – scrisse nel 1963 che la pluralità del nome “Calabrie” è stato chiaro segno di un diverso sentimento popolare, risultato di una lunga esperienza vissuta in un territorio difficile negli spazi, atteso che ogni impossibilità di comunicazione interna rendeva gli stessi spazi immensamente più ampi di quel che erano nella realtà delle loro dimensioni.

Nelle Calabrie, infatti, si incontrano usi e costumi diversi tra loro. Anche la parlata differisce parecchio.

Il dialetto che si parla a Reggio è profondamente diverso da quello parlato nel catanzarese e nel cosentino, essendo molto più affine al siciliano, e più in particolare al messinese, per ovvie ragioni legate alla vicinanza geografica.

L’affinità é talmente evidente da fare rientrare il reggino tra i dialetti appartenenti alla lingua siciliana.

Il dialetto reggino, detto “riggitanu”, si è formato nei secoli dalla fusione di vari linguaggi parlati nel territorio, a cominciare dal greco antico dei primi coloni, successivamente rafforzato dalla secolare presenza dei bizantini, poi influenzato dal latino e da tante altre identità linguistiche dovute al succedersi di continue dominazioni, come quella spagnola e quella francese.

Dal greco al latino, passando per il grecanico ed il siciliano, l’antica parlata della città di Reggio, rappresenta quindi una vera e propria lingua sovrapposta, in questa determinata parte del territorio, che va da Scilla fino all’area grecanica di Bova, con marcata somiglianza al dialetto siciliano piuttosto che a quello calabrese.

La pluralità delle radici della lingua reggina trova inoltre riscontro in un lessico che, seppur in prevalenza proveniente dal latino, registra numerose parole greche sopravvissute, mantenendo la morfologia della koinè greca. Basti pensare ad alcune caratteristiche sintattico-morfologiche come il modo di formare il congiuntivo (ad esempio, “bisogna che io vada”, in greco diventa “echo na pao” ed in dialetto reggino “aju mi vaiu”, esattamente come in greco si dice “devo andare”, cioè utilizzando la particella “mi” in sostituzione di “na” usata in greco), oppure per l’assenza dell’infinito o per l’uso dell’imperfetto al posto del condizionale, ed ancora per l’assenza del passato prossimo sostituito sempre dal passato remoto.

Sono tutte caratteristiche che coincidono, come già detto, con la koinè greca e finanche simili al neogreco (il greco moderno), segno questo di un’evidente persistenza della lingua greca in questo territorio erroneamente chiamato Calabria.

La peculiare posizione geografica ha poi da sempre favorito l’orientamento dell’antica Reghion verso la Sicilia, soprattutto verso l’antica Zancle e cioè Messina.

I documenti storici evidenziano i millenari ed ininterrotti rapporti tra le due sponde dello Stretto, anche quando, con la conquista normanna, il ruolo egemone nello Stretto passò da Reggio a Messina e persino nei momenti di divisione politica tra Calabria e Sicilia, ad esempio quando la Sicilia era in mano araba e la Calabria in quella bizantina, oppure quando in Sicilia era sotto la dominazione aragonese e Reggio sotto quella angioina.

La vicinanza con la Sicilia, chiaramente, ha molto influenzato non soltanto il dialetto, ma anche tante altre cose fondamentali, come la mentalità, le tradizioni sociali e finanche le specialità culinarie, come ad esempio la pasta ‘ncaciata, lo stocco alla ghiotta, la caponata, gli arancini, la mozzarella in carrozza, le granite, i cannoli, la pignolata, la frutta martorana, ecc., che abitualmente si consumano anche a Reggio e non soltanto a Messina, mentre uno dei prodotti tipici calabresi più conosciuti – quale è la ‘nduja – non fa proprio parte della tradizione di Reggio che, per quanto detto, nella realtà dimostra di essere più siciliana che calabrese.

Ecco perché preferisco definirmi “strettese”. Perché non sono calabrese e non posso essere siciliano.

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