Un durissimo colpo è stato inferto al clan Scalisi, storica consorteria criminale con base ad Adrano, nel catanese: la Polizia ha eseguito 14 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di presunti esponenti dell’organizzazione, nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge complessivamente oltre 30 indagati. L’ordinanza firmata dal GIP ipotizza reati gravissimi: associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, espulsione, detenzione illegale di armi. Le contestazioni sono aggravate dalla finalità di agevolare il sodalizio mafioso.
L’operazione ha coinvolto un’azione coordinata tra la squadra mobile di Catania, il commissariato di Adrano e la SCO, con la collaborazione della polizia di Napoli, Caserta, Taranto, Nuoro, Sassari, Udine, Pavia, Siracusa, Chieti e Caltagirone. Nei giorni scorsi sono stati disposti fermi contro 10 soggetti riconducibili al clan; al termine dell’udienza di convalida, per loro il gip aveva ordinato la custodia cautelare in carcere. L’indagine hanno preso in considerazione numerosi episodi nel territorio etneo, co ramificazioni che, secondo gli inquirenti, supererebbero i confini provinciali. Le indagini mirano a interrompere i fili criminali che si intrecciano tra droga, estorsioni e strumentalizzazioni della violenza.
Un piano ben preciso: uccidere i responsabili della morte del figlio
I fermi eseguiti contro dieci esponenti del clan mafioso Scalisi di Adrano sono stati disposti dalla Procura di Catania per un omicidio che era prossimo alla realizzazione. Il capo della cosca aveva pianificato nei minimi dettagli l‘uccisione degli autori della morte del figlio appena diciasettenne, ucciso a coltellate lo scorso 20 aprile a Francofonte (Siracusa). Per l’agguato, che sarebbe dovuto essere commesso nel Siracusano, sarebbe partito da un commando proveniente da Chieti, utilizzando una falsa divisa da carabiniere e un furgone senza gps per evitare il tracciamento.
“Io devo acchiappare a tutti in un colpo...”, vado dove giocano al calcetto, “una motocicletta e bum bum li levo“. Queste le parole di Pietro Lucifora, boss reggente del clan Scalisi di Adrano, “legato” alla famiglia Laudani di Catania, con la sua convivente, spiegando il piano di vendetta contro tutti i presunti autori della morte di suo figlio Nicolò Alfio. Il tutto è stato ripreso dal gip di Catania, nelle oltre 520 pagine dell’ordinanza eseguita dalla polizia nei confronti di 24 indagati, sottolineando che “la sua intenzione era quella di ‘prenderli tutti insieme'”, ossia “uccidere contestualmente” tutti i “soggetti coinvolti”, tanto da “voler provocare una strage”.
Il gruppo di fuoco sarebbe partito da Chieti, dove abita uno zio di Lucifora, che gli avrebbe fornito un furgone senza Gps, per non essere tracciati, e forse anche le armi, con cui il boss e i suoi sodali avrebbero potuto “verosimilmente scendere da Chieti in Sicilia, commettere la strage e risalire a Chieti”, lasciando i loro cellulari nella città abruzzese per “precostituirsi un alibi e poter dimostrare che durante le fasi dell’omicidio si trovavano in quella città, ospite dei parenti complici e consapevoli, procurandosi nuove schede per poter parlare durante le fasi dell’omicidio”.
Per rendere ancora più credibile l’alibi il reggente della cosca e i suoi complici “sarebbero stati pronti a dichiarare, qualora fosse necessario in un interrogatorio, che a Chieti Lucifora aveva un’amante, circostanza non veritiera”, e per renderla credibile stavano iniziando a mandarsi “messaggi concordati tra i telefoni dei due falsi amanti”.



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