C’è un limite alla libertà di parola, ed è quello del rispetto. Un principio che dovrebbe essere fondamento di ogni professionista dell’informazione, ma che pare ormai completamente smarrito nei microfoni di Radio Antenna Febea, dove Giovanni Baccellieri continua imperterrito la sua personale crociata contro la fede e contro la Chiesa Cristiana “Gesù Cristo è il Signore” di Catona.
Dopo il precedente episodio – già gravissimo – in cui durante la trasmissione Talk Sport furono mandate in onda bestemmie in diretta, con tanto di ringraziamenti al blasfemo da parte dei conduttori, ci si sarebbe aspettati quantomeno un atto di scuse, una riflessione, un segno di responsabilità. Invece no.
Non solo Giovanni Baccellieri e suo figlio Dario, sua abituale “spalla” in trasmissione, hanno tentato di riscrivere i fatti negando l’evidenza – nonostante gli audio parlassero da soli – ma nelle ultime puntate il conduttore ha rincarato la dose, oltrepassando ogni soglia di decenza.
“Anzi, andiamo là nella loro comunità e gli bestemmiamo là dentro, gli porto pure il pappagallo che bestemmia pure”, ha detto in diretta. Una frase che non lascia spazio a interpretazioni né a giustificazioni: è un attacco frontale, deliberato e offensivo verso una comunità di fedeli e verso chiunque professi la propria fede cristiana.
Non si tratta più soltanto di cattivo gusto o di una provocazione fuori luogo. Qui siamo di fronte a una sistematica e pubblica denigrazione della religione, trasmessa da un’emittente che dovrebbe rispettare le regole dell’etica giornalistica e del buon senso civile. È inaccettabile che un giornalista – iscritto all’Ordine – possa usare un microfono per insultare, deridere e vilipendere la fede altrui.
La libertà di espressione non è libertà di offendere. E quando il linguaggio si trasforma in disprezzo e il mezzo di comunicazione in veicolo di blasfemia, non siamo più nel campo dell’opinione, ma in
quello della degenerazione culturale.
La comunità “Gesù Cristo è il Signore” di Catona, e con essa tutti i credenti che hanno ascoltato con sdegno tali parole, meritano rispetto. Meritano che chi offende la fede venga richiamato alle proprie
responsabilità, anche nelle sedi competenti.
Ciò che colpisce, in fondo, è il silenzio: nessuna presa di distanza ufficiale da parte dell’emittente, nessuna sanzione, nessun gesto di dignità professionale. E così la volgarità diventa normalità, l’offesa diventa spettacolo, la bestemmia diventa intrattenimento.
Ma il giornalismo – quello vero – non è questo. Non è un’arena di dileggio, né un pulpito di insulti. È servizio, è responsabilità, è parola che costruisce. Quando la parola diventa arma di disprezzo, la prima sconfitta è quella della libertà stessa.



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