I leader che troneggiano da qualche anno sulle sparse membra del corpaccione ‘delle opposizioni’ sono tutti di scarsissima qualità e , perciò, non possono avvalersi dell’attenuante della salute mentale: per esempio il ‘verde’ Bonelli, che ogni giorno si dice ‘basito’ da qualcosa, pare che ormai abbia acquisito una forma di ‘attonimento’ cronico – ma non si può fare a meno di notare che la linea politica seguita a colpi di fotografie di gruppo, di selfie, di baci e abbracci a favore delle telecamere affiliate e compiacenti dei tonitruanti talkshow televisivi h24, appare, almeno ai miei occhi, quella di esagitati da manie di persecuzione (absit iniura verbis): una sindrome che continua a dilagare soprattutto tra i giovani – e le giovani – gruppettari della direzione del PD. Ma non mancano i sintomi della schizofrenia: per esempio, sulla questione del riarmo europeo, il PD ha esibito una sindrome da ‘uno, nessuno e centomila’, ottimo panno rosso per scatenare il toro pacifista e raccattare qualche voto in più.
“Discorso pubblico”
Il ‘discorso pubblico’ impostato dalle opposizioni al governo Meloni segue due solchi che man mano si approfondiscono, non nel senso che diventano più significativi ma che, approfondendosi, diventano più bui: il fascismo e la persona del presidente del consiglio, Giorgia Meloni. Non v’è giorno infatti in cui l’uno e l’altro dei due argomenti non venga usato per criticare il governo. Non v‘è quisquilia o parola di Giorgia che non venga passata al setaccio trasformando la politica in chiacchiericcio da comari; né v’è atto politico del governo che non venga ammantato di fascismo più o meno palese.
In questi quasi tre anni, nulla di quanto è stato detto o, anche, solo pensato da Giorgia, Matteo e Antonio è andato giù agli zelanti protettori del popolo – pardòn, essi si sono unanimemente complimentati con i nostri biechi governanti per la liberazione di Cecilia Sala in Iran: ma subito dopo, si sono potuti rifare con gl’improperi per la faccenda del generale libico.
Posizione politica
Per illustrare la posizione politica di Elly, di Giuseppi, di Nicola e di Angelo – ai quali più di recente si è aggiunto Matteo R. che, dopo la stagione del ‘terzo polo’, passata nella speranza di divenire insieme a Carlo la calamita per il voto moderato, tenta ora di ricoverarsi nuovamente sotto le ali di Elly elemosinando qualche seggio nel futuro Parlamento del 2027 – non bisogna conoscere i sacri testi di Marx o di Gramsci e nemmeno di Grillo. Basta qualche esempio terra terra: la ringiovanita e charmant Concita De Gregorio, spesso presente nello studio di Lilli Gruber, ha aperto la sua guerra di ‘resistenza’ con l’allarme son fascisti: «Il governo sta agitando il manganello prima che serva, cercando di invitare le persone a stare a casa, a non manifestare, a non prendere parola nella piazza, che è una delle forme dirette di democrazia garantita dalla Costituzione»: l’abile giocoleria di parole lo diceva mescolando il decreto sicurezza con la guerra di Gaza, anzi con la manifestazione indetta per il 7 giugno scorso, cioè il giorno prima del referendum, proprio nel giorno del silenzio elettorale, con il chiaro intento di sfruttare la camicia insanguinata non tanto in pro dei palestinesi, per condannare la guerra a Gaza – che, detto fra noi, può finire solo se finisce Hamas – quanto piuttosto per lanciare un messaggio politico chiaro: votare Sì nei quattro referendum promossi dalla sinistra.
Referendum
I referendum non sono passati per mancato raggiungimento del quorum e, naturalmente, l’oggetto del dibattito elettoral-referendario non è stato il merito dei quesiti sottoposti ai votanti bensì l’antidemocratico (leggasi fascistico) appello all’astensione lanciato da Meloni. Il lamento che ha assordato l’elettorato non riguardava il renziano-pdino ‘Jobs Act’ né, tantomeno, la questione della cittadinanza, quanto, piuttosto, il truce Presidente del Senato La Russa, il quale aveva annunciato che non sarebbe andato alle urne: in effetti, la CGIL, romanticamente abbracciata da Elly, Nicola, Giuseppi e Angelo, si è svegliata per proporre il referendum sul Jobs Act solo dopo 10 anni e solo per tentare di azzoppare il governo Meloni soffiando nell’autunno scorso un vento abbastanza caldo per invogliare la gente ad apporre qualche firma.
I più ‘sinistri’ dei sostenitori del Referendum – per esempio Laura Boldrini – hanno spiegato l’insuccesso elettorale anche con la mancata illustrazione dei quesiti referendari, naturalmente imputata al ‘regime’. Hanno ragione.
Infatti, solo Dio sa come essi avessero bisogno di essere spiegati – anzi tradotti – in un linguaggio comprensibile a tutti. Faccio qualche esempio:
Quesito n. 1:
“Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?”
Quesito n. 2 :
“Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, in tema di “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione” di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della , legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici?”
E via di seguito.
Ci meraviglia molto però come, la Corte Costituzionale abbia dichiarato ammissibile il referendum riguardante l’articolo 9 dell’attuale legge sulla cittadinanza, la numero 91/1992, motivando la decisione positiva con il fatto che «la richiesta non rientra in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario».
Si, va bene!
Ma la Corte non si è accorta che si tratta di un referendum manipolativo e non abrogativo, tipologia mai ammessa in passato dalla Corte stessa?
Obiettivo dei promotori era infatti quello di dimezzare da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di concessione della cittadinanza.
Perché la Corte Costituzionale non si è accorta della finalità manipolatrice – e, quindi, ‘fuorviante’ per i votanti – del quesito referendario? Bastava leggerlo: «Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?».
Certo, per capire e interpretare un tale testo non basterebbe il genio di Ulpiano. Ma non possiamo pensare che, tra i 15 saggi, vestali della Costituzione, non ci sia qualcuno che sappia farlo.
La colpa del mancato raggiungimento del quorum non è di Meloni né di La Russa
La colpa del mancato raggiungimento del quorum non è di Meloni né di La Russa ma di chi ha promosso i referendum e di chi li ha favoriti non tanto nel loro merito quanto per tenere agitate le acque della politica italiana. Una democrazia non ha alcun interesse a rendere complicato, difficile e costoso il buon governo. Al contrario, essa ha tutto l’interesse a semplificare il suo meccanismo, in modo che solo le questioni e le scelte importanti vengano sottomesse all’elettore. Bisogna fare ogni tentativo per risvegliare il suo interesse e il suo spirito pubblico; è per questo motivo che egli non deve essere affaticato da richieste eccessive e confuso da decisioni complicate. Il costo del governo in termini di tempo, capacità, addestramento ed energia non dovrebbe ricadere sui seguaci, ma sui leader; e questi ultimi dovrebbero avere tutte le responsabilità politiche e, anche, morali.
No. La colpa non va addebitata ai malvagi italiani che non hanno votato, ma a chi vuole trasformare la lotta politica in Italia in una ‘prova del fuoco’ permanente. Ne sono testimonianza gli scioperi dei trasporti a raffica promossi da Landini per le più varie ragioni, non ultima la protesta, ‘ferma’, ‘vigorosa’, ‘umanitaria’, contro il governo incapace di far cessare la guerra a Gaza (ancora non è stato indetto quello per l’Iran).
Giannini
Uno dei più autorevoli tromboni della ‘claque’, Massimo Giannini, immancabile sparring partner – nel senso che fa da spalla agl’immancabili attacchi premeditati e preparati contro la ‘destra destra’ dalla Gruber e da tutti i satrapi della roccaforte della propaganda televisiva – non sapendo cos’altro mettere nel carniere della caccia alla Meloni ha detto disperato: «Come sempre Meloni ha una sua astuzia di fondo, va ad agitare alcune preoccupazioni oggettive che nella società ci sono ma insieme a queste veicola tutta una serie di misure che viceversa configurano un altro tipo di Stato … Da una parte c’è l’idea dello Stato etico che si occupa dei nostri peccati e dall’altro lato c’è lo Stato di polizia che si preoccupa dei nostri reati, quelli del futuro». Il grande editorialista ed ex direttore di giornale ha aggiunto poi una profonda riflessione ‘geopolitica’ lamentando che: «Giorgia Meloni ha evitato i vertici internazionali sull’Ucraina, scegliendo l’assenza in un momento chiave per la diplomazia europea»; una scelta che, secondo la confusa risposta dell’acuto commentatore, aveva un sola matrice, l’asservimento a Trump: «Meloni ora si trova davanti a un bivio: sostenere l’alleanza atlantica o allinearsi … tutti gl’indizi portano a Trump … il più forte secondo la sua strategia di sopravvivenza politica». Poi l’affondo: “Meloni come Trump, una leader in fuga dalle responsabilità”.
Il fatto è ‘quasi-vero’ ed è stato spiegato dal primo ministro con l’estraneità dell’Italia alla linea che il vertice anglo-franco-alemanno intendeva promuovere, cioè quella di un ‘volenteroso’ invio di truppe in Ucraina per un’eventuale fase di ‘peace-keeping’: un’offerta che era già stata sdegnosamente qualificata dal ‘buon’ Putin come irricevibile in quanto avanzata da una parte in causa. Ora gli amanti delle foto-ricordo, come Giannini & Co., sicuramente si sarebbero stracciati le vesti se solo Melloni fosse comparsa in uno di tali souvenir e l’avrebbero accusata di essere una ‘guerrafondaia’.
La votazione del decreto sicurezza ha dato occasione al capogruppo pd in Senato per esibire tutte le sue qualità istrioniche e la sua intelligente, si fa per dire, oratoria informandoci che «i partiti di governo vogliono introdurre norme autoritarie e repressive … Il governo vuole mettere in carcere i bambini figli di madri detenute, gli studenti che manifestano, i lavoratori che scioperano. È una vergogna, è una destra da regime!»
La stessa sinfonia, in fa (scismo) maggiore, sarà suonata per la riforma delle carriere giudiziarie e, soprattutto, per quella annunciata del ‘premierato’. Converrà sottoscrivere un abbonamento.
Un ultimo pensiero (riverente) per Carlo Legrottaglie, il brigadiere dei Carabinieri ucciso da due rapinatori durante un inseguimento: non ho sentito nessuno levare la voce per accusare i banditi; nemmeno Franco Gabrielli, l’ex capo della polizia ed ex esperto di sicurezza assoldato dal sindaco di Milano che, ponzando intensamente, emise a suo tempo una sentenza che passerà alla storia («Se il tema è fermare una persona che sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo») e promosse una intelligente riflessione sulle modalità ‘anomale’ dell’inseguimento di una coppia di supposti fuorilegge che avevano forzato un posto di blocco dei carabinieri a Milano.
Le esercitazioni dialettiche, le filippiche sull’inseguimento ‘democratico’, le manifestazioni violente al Crosetto, i buoni progressisti le riservano solo a carabinieri e agenti di polizia che, a loro parere, sono i manganellatori di regime. Infatti, anche in questo caso, è andato in scena il tristo rituale dei solerti pm che, per ‘atto dovuto’, hanno messo sotto inchiesta i due carabinieri che hanno risposto al fuoco aperto dai banditi che hanno assassinato Legrottaglie: se non fosse morto, anche lui sarebbe indagato.