La guerra tra Iran e Israele ha una piega molto chiara, in linea con ogni aspettativa della vigilia: c’è un Paese che sta vincendo, raggiungendo tutti gli obiettivi dell’operazione, e un altro che non sta soltanto perdendo, ma è stato fin qui letteralmente umiliato. Ovviamente si tratta dell’Iran: dopo appena 12 giorni di combattimenti, il suo programma nucleare per dotarsi della bomba atomica che andava avanti da 40 anni con investimenti di centinaia di miliardi di dollari non esiste più, così come sono state decapitate tutte le leadership delle milizie dei pasdaran al servizio dell’Ayatollah ancora nascosto in un bunker segreto. Come un topo di fogna, mentre in Israele Netanyahu passeggia tra la gente e viene acclamato dai passanti.
Israele ha avuto dal primo giorno il pieno controllo dello spazio aereo iraniano: per rendere l’idea, è ciò che la Russia non riesce ad avere sull’Ucraina da oltre tre anni. Così i caccia F-35 di Gerusalemme hanno distrutto oltre il 50% dei lanciatori dei missili balistici dell’Iran. Distrutti anche buona parte dei missili: prima del conflitto l’Iran ne aveva poco più di duemila e in questi 12 giorni ne ha lanciati quasi la metà. Israele, inoltre, ha distrutto tutte le basi e i depositi con le munizioni, le industrie belliche e tutte le basi militari del regime islamico, uccidendo oltre mille terroristi al servizio del dittatore, compresi una quindicina di scienziati nucleari.
L’Iran, quindi, non può più dotarsi della bomba atomica; è molto più inoffensivo senza buona parte dei lanciatori e con pochi missili balistici rimasti a disposizione, e la sfida più grande adesso è ricostruire il regime decapitato nelle sue leadership. Israele, inoltre ha liberato i prigionieri politici detenuti nelle carceri iraniane, con la convinzione che la democrazia non si può esportare ma se ne si può spargere il seme. Un grande Paese com’è l’Iran, l’antica Persia, con oltre 90 milioni di abitanti, ha tantissimi dissidenti non solo in esilio in tutto il mondo ma anche sotto tortura nel loro Paese: adesso stanno respirando il profumo della libertà, ed è dalle viscere dell’Iran che deve nascere lo spirito di ribellione dai soprusi del regime per restituire al popolo la luce del bene oscurata da 46 anni di tenebre del male.
A fronte di tutto questo, hanno fatto il giro del mondo e suscitato generale ilarità le grottesche immagini dei festeggiamenti di qualche centinaio di abitanti di Teheran che ieri sera è sceso in strada con le bandiere del regime ad esultare e festeggiare per la supermega risposta bellica dell’Iran all’attacco degli USA: nei minuti precedenti, infatti, l’Iran aveva lanciato 14 missili sul Qatar, determinando lo sdegno di tutti i Paesi arabi. Però aveva avvertito prima: le basi militari USA erano state evacuate e tutti i missili sono stati intercettati dalle difese americane. Tranne uno, che era diretto nel deserto e quindi non c’era motivo per intercettarlo. Donald Trump non ci ha pensato due volte e ha umiliato l’Iran in mondovisione: “L’Iran ha ufficialmente risposto alla nostra distruzione dei loro impianti nucleari con una reazione molto debole, come ci aspettavamo, e che abbiamo contrastato in modo molto efficace. Sono stati lanciati 14 missili: 13 sono stati abbattuti e 1 è stato ‘lasciato libero” perché lanciato in una direzione non pericolosa. Sono lieto di annunciare che nessun americano è rimasto ferito e che non si sono verificati danni. Voglio ringraziare l’Iran per averci avvisato tempestivamente, questo ha permesso di non perdere vite umane e di non avere feriti. Forse l’Iran può ora procedere verso la pace e l’armonia nella regione”.
Quelle immagini degli iraniani che festeggiavano in piazza gli attacchi del regime come se fosse – dal loro punto di vista – accaduto un altro 11 settembre, ci hanno inevitabilmente riportato all’attualità di Reggio Calabria dove pochi giorni fa i pasdaran di Falcomatà hanno mandato in scena l’ennesima farsa da regime con l’inaugurazione del “Parco del Vento” a Punta Pellaro. Un progetto controverso, una “grande occasione mancata” secondo tutti gli addetti ai lavori della zona, il paradiso del kitesurf. Eppure per cento metri di marciapiede abbiamo visto la sfilata di Sindaco, Vicesindaco, assessori e consiglieri contornati dalla solita claque composta da giornalisti asserviti e controfigure alla stregua di adolescenti impazziti, tutti eccitati a battere le mani e addirittura mettersi in fila per scattarsi un selfie con il primo cittadino neanche se si fosse appena compiuto un grande prodigio. Ma andava idolatrato pubblicamente il nostro Ayatollah Alì Falkhomanei.
Ma non è un vizietto ad uso esclusivo della politica. Poco più di un mese fa allo stadio Granillo abbiamo assistito alle stesse scene di giubilo e tripudio quando la Reggina ha battuto la Scafatese nella finale dei playoff dei Dilettanti. Una partita che non serviva a nulla, a cui però gli allocchi che da anni si bevono tutte le fandonie del nostro regime davano un peso tale da scatenare la festa. C’è mancato un soffio per vedere i caroselli in strada. Altrettanto eccitati per la convinzione del ripescaggio in serie C instillata da mesi di menzogne dell’altro Ayatollah Alì Ballarinei, hanno celebrato quella vittoria alla stregua di quanto accaduto in Francia per lo storico successo del PSG in Champions League. E poi hanno sfogato la loro rabbia contro i giornalisti che, il giorno dopo, si sono permessi – che biricchini – di prenderli un po’ in giro: tipico dei regimi.
Certo, Ballarino non è un dittatore islamico e Falcomatà è stato eletto democraticamente. Ci mancherebbe. Ma le immagini dei poveri iraniani che a Teheran festeggiano mentre in realtà il loro regime si consegnava al nemico ci hanno inevitabilmente ricordato quelle dei reggini che fanno la corsa al selfie con il Sindaco mentre non hanno l’acqua nelle case, si muovono tra strade distrutte dalle buche e vivono circondati dalla spazzatura. Cosa c’è da festeggiare?
E cosa c’è da festeggiare per la Reggina che vive il momento peggiore in assoluto della sua storia? Tre anni consecutivi nei Dilettanti non c’erano mai stati dal 1914, ed erano impensabili per i nostri nonni e per i nostri padri.
L’aggravante di tutto questo è che a Reggio nella realtà non c’è alcun regime. Non c’è alcun Ayatollah. In Iran il popolo soffre la violenza del dittatore e le pulsioni di ribellione vengono arginate con il terrore. A Reggio Calabria, invece, è il popolo stesso che gode a vivere da suddito. E’ una questione culturale, è una scelta sociale: abbiamo il libero arbitrio sul nostro destino, non c’è nessuno che mette in prigione gli oppositori, potremmo scegliere il meglio ma invece preferiamo sottometterci al padrone di turno. Così Falcomatà, che ha il potere assoluto in città da 11 anni, sta agognando una legge nazionale sul terzo mandato affinché possa ricandidarsi nel 2026 e prolungare a 17 anni il suo potere. Neanche sotto il fascismo i Sindaci potevano durare così tanto, eppure nel suo entourage e nel suo partito – dichiaratamente democratico e antifascista – oggi è questa l’unica speranza per il futuro. Quando si dice una classe dirigente lungimirante. E non c’è dubbio che la gente lo rivoterebbe, ad un politico come Falcomatà che ha distrutto la città ma ha costruito un solido potere intorno alla sua leadership, basti vedere i tanti giornalisti dichiaratamente di sinistra, che prima della sua elezione fino al 2014 erano impegnati in modo critico sulla stampa e adesso sono tutti a fare i portavoce del potere nei palazzi comunali. Non usa la violenza, non usa il terrore, ma a questa città basta poco per vendersi e così tutti hanno paura di esporsi, di esprimersi liberamente, di dire e fare ciò che pensano perchè devono tutelare un posto al comune, proprio o di un parente, o una collaborazione esterna, o un incarico, o l’esito di un bando. Quanta povertà, quanto degrado. Roba da Medioevo.
Non è affatto differente la situazione della Reggina, il principale simbolo identitario della città svenduta dalla stessa politica ai propri compari e ridotta in macerie. Eppure a tanti va bene così, per un pezzo di pane rancido, per una cenetta con un dirigente, per un biglietto gratis sulle tribune.
In una città normale, in una città libera, tutto questo non sarebbe concesso. Non sarebbe concesso dal popolo. Non sarebbe concesso che chi malgoverna in modo così sfacciato, si permetta anche il lusso di prendere in giro la gente. Guardateli, Falcomatà e Brunetti, servitori del popolo retribuiti rispettivamente con 14 mila e 10 mila euro al mese di stipendio versato dai cittadini, che fanno una diretta social di 50 minuti per celebrare una “giornata storica per la città“ per la posa della prima trave del ponte Calopinace, lungo dieci metri, che doveva essere inaugurato otto anni fa e di cui hanno più volte sbagliato le misure. Sono passati pochi giorni, i lavori si sono fermati di nuovo e Brunetti sorridente davanti alle telecamere si permette di dire che “sono fermi i lavori in cantiere, ma proseguono i lavori burocratici, quindi non è corretto dire che i lavori si sono fermati“. Un concetto che oggi ribadisce in un comunicato stampa surreale. Dopotutto fanno bene a prenderci tutti per scemi: con poche eccezioni, è quello che Reggio gli concede da un decennio abbondante. In sostanza, secondo il Brunetti-pensiero, Salvini potrebbe dire che i lavori del Ponte sullo Stretto sono già iniziati perchè non conta più il cantiere ma la burocrazia. L’ennesimo cortocircuito della sinistra: no all’energia nucleare per uso civile (quindi abbattere i costi delle bollette dei cittadini) in Italia, ma sì alla bomba nucleare dell’Iran. No al Ponte sullo Stretto per dare lavoro, benessere e ricchezza a Calabria e Sicilia, sì al Ponte del Calopinace che è un “grande passo” lungo dieci metri che per giunta da dieci anni non riescono a completare. E se riusciranno a finirlo, avranno persino il coraggio di inaugurarlo in pompa magna, anziché aprirlo al traffico chiedendo scusa e nascondendosi per la vergogna…
Ma questo è solo l’ultimo esempio delle clamorose prese per i fondelli che i nostri concittadini concedono ai nostri amministratori come se fossero Ayatollah imposti con la forza. Non c’è alcun dubbio che se un giorno gli Ayatollah, quelli veri, arrivassero a Reggio Calabria, avrebbero certamente vita facile: nessun dissidente, nessun oppositore, masse asservite per un tozzo di pane. E poi, considerando che per ogni missile balistico spendono un milione di dollari, basterebbe stanziare il 2% del programma bellico alla Reggina: altro che Ballarino, in un paio d’anni faremmo la Champions League.
Aspettando il nostro Netanyahu: quando arriverà, anche per Reggio Calabria, il giorno della liberazione?



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