Entro il 2050, secondo le proiezioni demografiche rese note dal Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il Sud Italia perderà 3,4 milioni di abitanti. Non si tratta di un’eventualità remota, ma di una tendenza in atto da anni, ormai strutturale. Basti pensare che la città che si spopola di più in Europa è Messina, con 20 mila (!) abitanti in meno negli ultimi dieci anni.
Il lavoro che non c’è
Il principale fattore che alimenta questa emorragia è la cronica mancanza di occupazione. Nel 2024 il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è stato appena del 49,3%, contro il 69,7% del Nord. La disoccupazione, invece, si attesta in media all’11,9%, ma in alcune regioni la situazione è drammatica: 16,1% in Sicilia, 15,9% in Campania, 14,6% in Calabria. Numeri che rivelano un mercato del lavoro incapace di trattenere i giovani, che partono in massa appena terminati gli studi.
A questa fuga si somma quella degli inattivi, una generazione scoraggiata che né lavora né studia, esclusa da ogni forma di partecipazione produttiva. Chi resta si trova spesso a vivere in territori dove le opportunità sono poche, i salari bassi e la prospettiva di crescita personale e professionale pressoché inesistente. E intanto, il Sud invecchia, perde capitale umano e accumula ritardo.
Il peso dell’isolamento
Se il lavoro è la miccia, le infrastrutture rappresentano il combustibile che alimenta il declino. Nel Mezzogiorno si sconta un ritardo infrastrutturale che blocca lo sviluppo economico. L’Alta Velocità ferroviaria si ferma a Salerno, lasciando milioni di persone escluse da collegamenti rapidi e moderni. Le strade sono spesso insufficienti, le ferrovie lente e obsolete. Ma il caso più simbolico e drammatico è quello della Sicilia.
L’isola resta scollegata fisicamente dal continente: l’assenza del Ponte sullo Stretto di Messina costa alla Sicilia tra i 6 e i 6,5 miliardi di euro ogni anno, secondo uno studio di Prometeia. Un costo altissimo, che non si misura solo in termini economici, ma anche politici e culturali. L’isolamento logistico dell’isola penalizza l’industria, scoraggia gli investimenti e frena la mobilità di persone e merci. È come se, ogni anno, la Sicilia pagasse un’enorme tassa per restare ai margini del Paese.
Una terra svuotata
Negli ultimi anni, molte regioni del Sud hanno puntato tutto sul turismo, spesso a discapito dell’industria. Il risultato è un’economia basata su occupazione stagionale, precaria, e spesso mal pagata. I vecchi poli industriali – da Termini Imerese a Bagnoli – sono stati progressivamente abbandonati, senza una strategia alternativa. Oggi, senza una base produttiva stabile, il Sud rischia di restare prigioniero del ciclo turistico e di un terziario debole, incapace di sostenere una popolazione attiva.
La conseguenza è chiara: se non si interviene, il vuoto lasciato dai meridionali sarà colmato da immigrati, regolari o meno, che si insedieranno nei territori lasciati liberi. In molte zone, già oggi, le scuole restano aperte grazie ai figli degli stranieri. Tra qualche decennio, potrebbero essere loro – e non gli italiani del Sud – a tenere in piedi le comunità locali, a lavorare nei servizi e a far ripartire l’economia.
Per evitare questo scenario, servono scelte coraggiose: investimenti in occupazione, infrastrutture, innovazione, e soprattutto una politica industriale per il Mezzogiorno. Senza questi interventi, la grande fuga continuerà. E sarà troppo tardi per chiedersi dove sono finiti i meridionali.



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