di Francesco Marrapodi – Menomale che a breve inizieranno i lavori per la realizzazione di una delle infrastrutture più straordinarie dell’Italia, altrimenti, mentre il resto del mondo costruiva, noi saremmo rimasti impantanati nei veti incrociati, nelle polemiche ideologiche, nelle fobie da salotto. Questo per dire che il Ponte sullo Stretto non è solo un’infrastruttura: è la linea di confine tra la stagnazione e il risveglio di una nazione. Costruirlo non è una scelta. È un imperativo storico. Nel cuore del Mediterraneo, tra Europa e Africa, tra Oriente e Occidente, l’Italia ha una posizione strategica unica. Eppure, lascia la Sicilia — la sua isola maggiore — ostaggio di traghetti e tempi morti, mentre il commercio globale corre, il turismo evolve e le catene logistiche si trasformano. Chi si oppone al ponte non sta difendendo l’ambiente né il bene comune: sta difendendo l’immobilismo, il sottosviluppo, la marginalità. È complice, consapevole o meno, di una visione provinciale che condanna il Sud all’irrilevanza.
Il Ponte è il varco che può trasformare la Sicilia e la Calabria in un hub logistico euro-mediterraneo
Questo ponte è geopolitica, è economia, è giustizia. È il varco che può trasformare la Sicilia e la Calabria in un hub logistico euro-mediterraneo. È l’occasione per rilanciare l’Italia come potenza infrastrutturale. E potrebbe essere la risposta a secoli di retorica sul Mezzogiorno. Chi ha il coraggio di sognare non può restare in silenzio. Il ponte è un atto di fede nel futuro, un gesto politico di portata continentale, un manifesto d’orgoglio nazionale. Va fatto. E va fatto ora. E chi lo ostacola dovrà spiegarlo non solo alla storia, ma alle generazioni che verranno.