Avemmo modo di scrivere, non senza mestizia, che qui a Reggio quando si inaugura qualcosa la cittadinanza vi assiste con un animo entusiasta ma oscurato dalla coscienza che tutto quanto viene appena consegnato, dopo i primi momenti di splendore presto sarà abbandonato a sé stesso iniziando una rapida decadenza. E, infatti, non ci sbagliavamo osservando il rapido declino di diverse meritorie opere della amministrazione. A parte i soliti strafottenti che già il giorno dopo usavano le aiuole di Piazza De Nava come pattumiere, ecco dopo qualche settimana il primo deficiente che non aveva resistito alla tentazione di scrivere sul nuovo lastricato, ed ecco infine imbrattato il monumento a Corrado Alvaro che era riuscito a resistere per ben cinque mesi dal restauro, in concomitanza con la stagione estiva: un vero record per le nostre parti.
Altri scempi
Si aggiunga poi lo scempio di piazza Orange, quelli che si stanno divertendo a sgretolare la parete del Liceo Classico e adesso possiamo cominciare a preoccuparci per le nuove splendide aree ancora intonse: i muri della via Possidonea? I murales del Tempietto? Ogni giorno di più è guadagnato. Ma noi, dicevamo, non ce la prendiamo con la cittadinanza nel suo insieme, che di tutto questo è la vittima ed è ostaggio di una minoranza. Anche se le persone degnissime sono la grande maggioranza, in mezzo a tanti qualche idiota si trova sempre, e ne bastano davvero poche, a volte solo qualcuno, a fare i danni che poi pagano tutti. Da modestissimi studiosi di filosofia ci limitiamo qui ad analizzare cosa spinge queste persone a rovinare le cose pubbliche. Crediamo che ci siano almeno due fattori che fanno della cultura italiana in generale e meridionale soprattutto una cultura irrispettosa d’ogni cosa, e che purtroppo ci fanno dubitare di una democrazia distribuita troppo alla leggera.
Il primo la aveva enunciato Prezzolini già un secolo fa nel suo Codice della Vita Italiana, quando aveva detto che in Italia non esiste il concetto di bene pubblico e le cose di tutti sono percepite come cose di nessuno. Quindi se io imbratto un monumento o abbandono a terra una busta di immondizia o rompo una panchina tanto per divertirmi non mi sento colpevole perché non credo di danneggiare qualcosa che abbia un proprietario. E se qualcuno mi dovesse riprendere non provo neanche vergogna ma addirittura ne resto stupito. E semmai rispondo: “E a te che te ne frega, e che forse è roba tua?”.
Prezzolini diceva che esistono due Italie
Infatti Prezzolini diceva che esistono due Italie, e mentre quella del Nord era proiettata verso l’Europa quella del Sud era un’appendice dell’Africa (lo diceva un secolo fa, quando la percezione dell’Africa era quella di un continente da civilizzare, fino a che si sarebbe potuto farlo). Ma poi diceva anche che gli italiani, nel loro insieme, sono un popolo restio alla democrazia, e questa democrazia imposta a forza spiega quale è secondo noi la seconda causa dell’incuria verso le cose pubbliche. Esiste infatti una confusione, mai superata, tra i concetti di libertà e anarchia. Il confine sembra labile o, secondo alcuni, inesistente, e invece la differenza è profonda e appartiene a due differenti aree culturali della politica. La libertà, che è un sentimento squisitamente democratico, è propria di chi riconoscendo i confini del proprio agire in mezzo alla gente vuole però riconosciuti anche i propri. E per questo chi la persegue ha un senso alto dello Stato e ne avverte il bisogno: perché sa che senza un garante subito qualcuno vorrà impadronirsi dei suoi spazi e metterà in pericolo la sua libertà.
In una società democratica c’è la necessità di conciliare le libertà di ognuno
Sa insomma il liberale che in una società democratica c’è la necessità di conciliare le libertà di ognuno e quindi è necessario il rispetto degli spazi degli altri e talvolta, purtroppo, l’uso della forza verso chi si sbraca e questo rispetto non lo vuole riconoscere. Ecco perché l’uomo libero non rovina i beni di tutti; egli si muove dentro i confini inviolabili della libertà degli altri, compresa quella di tutti, per vedere rispettati i suoi. L’anarchico invece questi confini non li riconosce, e guarda con disprezzo chiunque gli si frapponga. Egli concepisce la libertà come qualcosa che non ha e non dovrebbe avere limiti, e vede con sospetto ogni cosa o persona che gli si ponga innanzi. C’è, in questa visione, un anelito falsamente romantico secondo cui chi tenta di fermarlo in realtà lo sta solo soffocando nella sua aspirazione all’espressione e alla manifestazione del proprio io. Lui vede un nemico in ogni forma di autorità o di regola che gli si ponga innanzi e, come massima manifestazione d’ognuna, nello Stato.
Un poliziotto, una barriera, un divieto sono per lui un limite all’espressione. Figli ideali di una cultura di sinistra che ha avuto la sua massima espressione nelle rivolte sessantottine, ma che erano teorizzate da tutta una filosofia marxista e neomarxista (già Marx profetizzava la dissoluzione e l’inutilità dello Stato in un mondo che avrebbe raggiunto la liberazione dall’oppressione) questi anarchici nostrani non hanno mai avuto un De Gaulle che gli abbia detto che la festa è finita, ma hanno avuto piuttosto il tacito consenso di tutto un mondo intellettuale che quando non li ha potuti appoggiare ne ha comunque cercato l’umana comprensione più che la condanna.
Nei paesi dove la democrazia è nata, il diritto alla libertà è sempre stato il frutto di una conquista dura e da conservare attraverso una educazione disciplinata. Dove invece questa è stata semplicemente distribuita alla leggera senza la possibilità di carpirne il significato ne è invece nato solo un equivoco con cui si pretende di mascherare i frutti della noia o di un benessere mal digerito. E da questo equivoco è venuto fuori il ricatto di una minoranza che si cela dietro il diritto alla tolleranza mentre invece dietro c’è solo una squallida cialtroneria.