La nostalgia per eccellenza, oggi. Il sogno proibito e la curiosità, ieri. Shunsuke Nakamura è il colpo ad effetto di una squadra italiana. Ma da colpo ad effetto diventa allucinazione e fantasia se quella squadra si chiama Reggina, se è appena tornata in Serie A per la seconda volta, se il suo Presidente va in Giappone e convince un talento asiatico in dialetto calabrese. Il resto è storia e, per i tifosi amaranto, è anche inutile starne a ribadire i numeri. Quello che conta sono i ricordi, le giocate, quelle domeniche da sogno, le punizioni, i giornalisti giapponesi a riempire la tribuna stampa del “Granillo”.
Nakamura si è raccontato in un’intervista alla Gazzetta dello Sport e non possono mancare i tanti riferimenti alla Reggina. Quindi Lillo Foti, Mutti e Mazzarri, il suo grande amico Giovanni Morabito, le differenze culturali tra il Sud Italia e il Giappone e non solo.
Nakamura, la Reggina in un flash?
“Facile: il presidente Foti”.
Cosa la colpì all’epoca?
“Lo vidi per la prima volta in Giappone. Era il 2002. A un certo mi si avvicinò e mi mise in mano la numero dieci della Reggina. Io ero un ragazzino, la Serie A era una sorta di El Dorado… poi iniziò a parlare in italiano. Non capivo niente”.
Ci ha raccontato che le disse qualcosa in dialetto calabrese.
“Non so, non capivo, ma fu convincente. Sono molto affezionato a lui. Ricordo riunioni in cui entrava in sala stampa o nello spogliatoio e iniziava a parlare ad alta voce. Lo faceva per spronarci. A volte succedeva anche all’intervallo”.
Com’è stato vivere tre anni a Reggio Calabria?
“All’inizio strano, molto strano. Gli italiani sono diversi…”.
In che senso?
“Quando le cose andavano bene, eri un eroe. Uscivi in strada e ti assalivano, ti chiedevano autografi, ti offrivano caffè e ogni cosa. Era difficile perfino andare a fare la spesa al supermercato. Ne rimasi colpito. In Giappone il calcio non è lo sport più popolare, c’è anche il baseball ad esempio, mentre in Italia è questione di vita o di morte”.
E questo le sembrava strano?
“Sì, ma ho amato Reggio e la Reggina. Sono stato da Dio. Anche se quando le cose andavano male i tifosi entravano nel campo d’allenamento e si fermavano a parlare con noi. Ci chiedevano cosa non andasse e come mai avessimo perso qualche partita. Lì per lì avevo un po’ di paura. Qui da noi queste cose non si vedono”.
Il suo migliore amico a Reggio?
“Giovanni Morabito. Nel 2002-03, il mio primo anno, stavamo sempre in camera insieme. Lui è nato e cresciuto a Reggio, mi prese sotto la sua ala, giravamo la città. Inoltre, i suoi genitori avevano una pizzeria e mangiavamo lì. Ma dormire in camera con lui era un incubo…”.
Come mai?
“Ricordo una delle prime sere, in ritiro. Uscì dal bagno in mutande e andò a dormire così. Noi, in Giappone, stiamo sempre in pigiama, mentre lui si presentò così. Notai la sua faccia strana e provai a spiegargli a gesti cosa volessi dire. Per lui, comunque, era normale, così come bere solo un caffè a colazione. Per me invece era ed è fondamentale fare un pasto completo. Quante risate ci siamo fatti. È stato davvero un ottimo amico”.
Gli allenatori più importanti?
“Bortolo Mutti e Walter Mazzarri. Il primo è stato un secondo padre, col secondo, invece, comunicavano a gesti o con scritte sui fogli, ma grazie a lui ho imparato molto. L’ho avuto nel 2004-2005, l’ultimo anno a Reggio”.
Un ricordo particolare?
“Gesticolava un sacco, poi mi chiedeva se stessi bene, come mi trovassi a Reggio, se in famiglia fosse tutto ok”.
L’avversario a cui è più legato?
“Roberto Baggio. Il 5 ottobre 2002, al Granillo, segnai il primo gol su punizione in Serie A contro il suo Brescia. Bramavo di far vedere a un campione come lui cosa sapessi fare. A fine partita non gli chiesi la maglia per rispetto”.



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