Ripetere aiuta. La scelta semantica alla base di tutto è data dall’equazione secondo cui: i rom stanno agli zingari come i calabresi stanno agli ndranghetisti. Così, se ai calabresi tocca il primo impegno a sconfiggere la ndrangheta, è ai rom che spetta quello di debellare gli zingari. Un’analisi superficiale di chi si accinge a descrivere gli aspetti più evidenti del fenomeno mafioso zingaro si lascia spesso trascinare in semplificazioni fuorvianti. Spesso infatti all’indomani di operazioni eclatanti, nel reggino come altrove in Calabria, i giornali hanno titolato indicando col termine “inclusività” la ndrangheta che affiliava ed arruolava cosche zingare. Però ciò è errato. La ndrangheta è tutt’altro che inclusiva e proprio su questa mancanza entra in crisi il sistema e si genera lo scenario odierno.
Le cosche degli zingari non sono integrate nella ndrangheta
Le cosche degli zingari non sono integrate nella ndrangheta. Non esiste alcun vincolo gerarchico. Certo, ci sono degli zingari “battezzati”, ma si tratta più che altro di figure di collegamento che rispondo unicamente al proprio clan e non a coloro che vorrebbero manovrarli. Corpi estranei, armati e disposti ad osare perché banalmente hanno la brutalità per farlo. In fondo uno zingaro battezzato ndranghetista è come uno ndraghetista iniziato alla massoneria: è lì per un solo scopo, il proprio, e serve una sola causa, la propria. Ed intanto sul territorio le uniche truppe non sono quelle dei boss. E quest’ultimi che credevano d’essere pupari si scoprono essere pupi.
Certo, in qualche caso, più in passato che ora, le ndrine potevano avere l’illusione di avere ancora le cose sotto controllo. Magari una volta si riusciva ancora a fare massa critica, a chiamare qualcuno da fuori ed organizzare una spedizione punitiva esemplare. Ma è uno scenario che appartiene al secolo passato. Non siamo più negli anni Settanta, quando i membri di una ndrina potevano vendicare uno dei loro malmenato dagli zingari e pensare di restare padroni del campo, come ci ricordano i giornalisti Roberto Lessio e Marco Omizzolo.
Cinquant’anni dopo cosa rimane?
Cinquant’anni dopo cosa rimane? Le intercettazioni del processo “Garden”, in cui a Ciccarello gli zingari possono sfasciare le teste di ndranghetisti a colpi di casco e poi ottenere le scuse dagli stessi malmenati. Le dichiarazioni di malviventi consapevoli della propria debolezza che ammettono di non potersi permettere di reagire, e che magari, prima che succeda l’irreparabile, sperano che a salvarli giungano proprio quegli investigatori che li stanno intercettando. La ndrangheta si è scoperta impotente e scende a patti. Ha iniziato a farlo nel Lazio coi Casamonica ed è finita con accettare ciò anche in casa coi Bevilacqua. Perché sia chiaro, non pensate che altrove sia meglio: Catanzaro, Crotone e Cosenza stanno messe peggio di Reggio. Lì c’è stato chi ha provato ad opporsi, ma in quei casi finisce male: citofonare ai superstiti della faida di Cassano alla Ionio per informazioni. In alternativa si rimanda alle lucide analisi del giornalista Arcangelo Badolati.






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