Molti mi chiedono, in virtù del mio passato da critico d’arte, un parere sul prezzo pagato da un miliardario cinese per la banana di Cattelan. E io rispondo, seraficamente, che non si tratta di una questione artistica ma puramente economica. Come scrisse il grande economista Carl Menger nel secolo scorso ognuno attribuisce a ogni oggetto il prezzo che ritiene opportuno. Per me, aggiungo, una banana e un po’ di nastro adesivo possono valere al massimo cinquanta centesimi ma considerando che quella era ormai anche andata a male non avrei versato neanche quelli. Ma il miliardario ha ritenuto di poterne versare alcuni milioni, più di quanto gli sarebbero costate intere piantagioni.
Il discorso, naturalmente, non è così banale. Il miliardario non ha comprato una semplice banana, ma una banana particolare. Quella è la banana di Cattelan, quella che è stata esposta per mesi in un luogo al centro della cultura artistica e le cui foto sono state pubblicate sulle riviste più importanti del settore. Ha comprato (o, diciamo pure, s’è illuso di comprare) un pezzo di storia.
Un po’ come quei collezionisti di cimeli che pagano centinaia di migliaia di dollari, o anche milioni, per un paio di scarpe, o una maglietta, o una racchetta usate, quando ne potrebbero avere di nuove per cento dollari appena. Ma quelle, obiettano, sono state usate in quella partita, da quel giocatore, in quello stadio: non è mica la stessa cosa. O come quando vengono messi all’asta oggetti appartenuti a certi divi del cinema o altre persone famose, e i prezzi che raggiungono oggetti banali o insignificanti solo per avere avuto il merito di essere stati usati da quelle persone raggiungono cifre impensabili: quello non è più un semplice oggetto ma l’oggetto appartenuto a quella persona. Qui non c’entra più né lo sport né l’arte né quant’altro: qui si vuole solo comprare, feticisticamente, un pezzo di storia.
Lo scritto di un critico tedesco
Mi viene in mente lo scritto di un critico tedesco che nel primo dopoguerra fece molta impressione e che ancora oggi è citato con molta attenzione e riverenza, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. In quel breve saggio Walter Benjamin osservava che in quest’epoca, rispetto al passato, i progressi della tecnica avrebbero tolto all’opera d’arte quel substrato religioso e cultuale in cui era nata e in cui era stata fin qui avvolta per consegnarla all’uomo comune. Da fenomeno elitario la avrebbero data in pasto alle masse e ne avrebbero aperto la politicizzazione. Si ha, diceva, la perdita di quella che lui chiamava “aura”, che corrisponde a un valore quasi mistico e impalpabile che circondava le opere per piegarsi anch’esse, in un’epoca dominata dalla tecnica, a un consumo razionale. Noi abbiamo sempre avuto molti dubbi su tutto questo.
Anche in un’epoca di razionalismo e in cui la tecnica ha raggiunto una perfezione pressoché assoluta e sarebbe possibile ottenere delle copie assolutamente perfette della Gioconda o del David i turisti continuerebbero ad andare a Parigi o a Firenze per andare a vedere gli originali, in maniera del tutto inutile e irrazionale, perché non si accontenterebbero di una copia, ancorché perfetta. E qualsiasi collezionista non pagherebbe un centesimo per una copia perfetta di un capolavoro ma sarebbe pronto a sborsare milioni per la stessa cosa purché si dimostrerebbe che è quella fatta dall’artista in persona. E non è forse questo, contro le tesi del filosofo tedesco, un permanere, al di là di tutto, di quell’aura, di quel valore mistico e religioso delle opere che sconfina da quel lato oscuro dell’umano? Ecco dunque che l’uomo, anche in un’epoca di pura ragione, non riesce a liberarsi dei suoi fantasmi che emergono dalle profondità del suo essere.
L’arte, ovviamente, non c’entra nulla
Ed ecco dunque perché qualcuno ancora spende milioni per una banana, così come spenderebbe milioni per uno sputo. Ma l’arte, ovviamente, non c’entra nulla, al di là di fiumi di parole costruite attorno a questi episodi da torme di critici che vorrebbero spiegare la correttezza di ogni cosa. Nel film Anything Else Woody Allen, l’uomo che con Tom Wolfe ha più preso a sferzate le insensatezze della società moderna, fa dire in maniera umoristica ma non tanto a un suo personaggio: “se un tizio sale sul palco a Carnegie Hall e attacca a vomitare, stai tranquillo che troverai sempre qualcuno che la chiama arte”.
E, si sottendente, non si troverebbe, se ampiamente pubblicizzato, chi pagherebbe milioni per quel vomito? Ma in realtà, noi tapini, è già accaduto. Dalle pisciate avanguardistiche in pubblico di Hans Arp, non c’è cosa che non si sia fatta passare per arte: dalla merda inscatolata a orinatoi firmati a tele e manifesti strappati e via dicendo. Ovviamente, è inutile dirlo, non ogni merda e non ogni orinatoio è arte, ma solo quella prodotta e firmata dall’artista, che vi ha impresso, per così dire, la sua aura, così come solo le scarpe indossate da quel particolare atleta valgono milioni. Alcuni critici hanno tentato di giustificare il tutto affermando che non è l’oggetto in sé ad essere importante, ma il concetto che sta dietro l’oggetto.
Sarà anche, ma qui sono proprio gli oggetti che vengono venduti, e li vogliono pagati con soldi veri, concreti e fruscianti. E siccome il fenomeno non riguarda solo opere d’arte, o presunta tale, ma opere che siano semplicemente famose e gonfiate da una certa stampa, abbiamo la concreta impressione che non si tratti di operazioni culturali, ma appunto di semplice feticismo, come quel personaggio che non si lavava la mano da quando gliela aveva stretta il re. E così dopo i santi e i re taumaturghi del medioevo a cui era stato concesso un potere magico e divino, adesso questa aura è passata a certi personaggi che, come anticipava Guy Debord, sono finiti dietro la schermo o sui giornali. E questo trasforma una semplice banana da cinquanta centesimi in una colazione milionaria: purché, naturalmente, sia ben condita da diversi mesi di esaltazione pubblicitaria. In fondo è quella che ne giustifica il prezzo.