Lo stile architettonico può certamente definirsi come siculo-normanno, nato nel contesto di una nascente scuola artistica territoriale siciliana, innestando nell’arte normanna elementi anche di origine bizantina e musulmana
La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò è un’antica chiesa cristiana della Sicilia, situata presso la frazione San Pietro del comune di Casalvecchio Siculo, in provincia di Messina. L’edificio fu costruito dai Normanni quasi mille anni fa, precisaemnte nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca, conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il Re di Sicilia Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii, e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio.
Dalle analisi fatte sull’edificio e sul testo del diploma dall’archeologo Antonio Salinas e dall’arch. Giuseppe Patricolo e confermate dal Valenti, si può desumere che la struttura originaria potesse essere datata VI-VII sec., coeva quindi ad altri edifici presenti in Sicilia e Calabria, e distrutta nella successiva invasione araba. Dall’atto di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce e alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio (“carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei SS. Pietro e Paolo a quello di un barone siciliano del tempo.
La chiesa ristrutturata e rinnovata nel 1172 dal capomastro Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”.
L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco-bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta ai giorni d’oggi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti. Nel corso dei secoli poi, però, la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Nel 1885 la chiesa fu osservata e studiata dall’archeologo Antonino Salinas e dall’arch. Giuseppe Patricolo e nel 1888 la chiesa fu espropriata ai privati nelle cui mani era finita a metà secolo. Fu soggetta a varie campagne di restauro conservativo in particolare condotte dall’arch. Patricolo fino al 1904 con un progetto di isolamento dagli edifici addossati e un primo consolidamento; dall’ing/arch. Francesco Valenti del 1914 con un progetto di consolidamento, dopo i danni subiti dal terremoto del 1908, e la liberazione dalle superfetazioni barocche; dall’arch. Pietro Lojacono nel 1960 che proseguì gli interventi programmati dal Valenti. Il risultato finale è uno stile architettonico che può certamente definirsi come siculo-normanno, nato nel contesto di una nascente scuola artistica territoriale siciliana, innestando nell’arte normanna elementi anche di origine bizantina e musulmana. L’interno infine è caratterizzato da una assoluta austerità: non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli: si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non ci sono oggi elementi per stabilire se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi. E questo rendono la Chiesa ancora tutta da scoprire e visitare.