di Enzo Cuzzola – Il coraggio di Ntoni e la solidità del gruppo mi avevano rassicurato alquanto, malgrado l’incontro poco piacevole con la vipera, per cui avevo continuato a partecipare alla raccolta dei materiali infiammabili per la bamparizza di San Giovanni. Avevamo lavorato per almeno una settimana, sotto il “picu cocenti” del sole, refrigerandoci, di tanto in tanto, ficcando la testa sotto una delle fontane pubbliche del paese o immergendo i piedi in una delle canalette del Consorzio, temporaneamente attive. Avevamo raccolto legname, rami secchi, parti di vecchi mobili, copertoni, paglia ed erba secca, cartone e carta, insomma tutto ciò che poteva fare “mpigghiari” e durare il nostro fuoco propiziatorio. I più grandi, a turno, avevano piantonato anche di notte il materiale raccolto, sotto l’occhio vigile degli invisibili, ma sempre presenti, ripartitori del Consorzio.
Finalmente venne la sera del fuoco. Tutti, proprio tutti, i paesani, grandi e piccoli, vecchi e bambini, uomini e donne, si radunarono nei punti nevralgici per godere lo spettacolo della “mbamparizza”. In paese erano tre i fuochi organizzati: quello di Cannavò, quello di Riparo, il nostro, e quello di Prumo, in ordine dall’alto verso il basso. I fuochi venivano accesi nel greto arido della fiumara del Calopinace, in modo da evitare spiacevoli conseguenze , nei punti di confluenza, rispettivamente, dei valloni Manti, Asparella e Prumo.
Il raduno cominciò all’imbrunire. Le mamme portavano qualche sedia per stare comode e delle “truscie” (fagotti avvolti da tovaglie da tavola), che non capivo a cosa servissero. Ci collocammo tutti a debita distanza. Alle 22, ormai buio completo, gli orologi sincronizzati, dettero il segnale per l’accensione. Toccò ad uno dei grandi in rappresentanza della fazione, toccò a compare Lorenzo Sesia. Abilmente appiccò il fuoco in più punti, servendosi della paglia e della erba secca. In pochi secondi le fiamme salirono al cielo. Scrosciò un fragoroso applauso, urla e fischi da stadio, mentre compare Lorenzo con il suo solito sorriso, alzava “spaccone” le braccia in alto in segno di vittoria.
Dopo un paio di ore le fiamme si trasformarono in brace. Fu allora che dalle “truscie”, apparve ogni ben di Dio. Patate, pannocchie, melanzane, peperoni, finirono arrostiti. Finirono poi nelle gustosissime pagnotte della cooperativa, il tutto annaffiato, per i grandi, da quantità industriale di vino. Intanto alcuni si misero a suonare la tarantella con organetti e tamburelli. Fu una bellissima festa in onore di San Giovanni. Ci scordammo della gara e di controllare quale fuoco fosse stato il più alto. Non aveva vinto nessuno o meglio avevamo vinto tutti. Aveva vinto l’unione, la socializzazione, la fratellanza e l’amicizia che, pur con i momenti tipici di tensione di ogni famiglia, caratterizzava il vivere in paese.



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