Centenario di Andrea Camilleri, gli italiani tra ammirazione e difficoltà nel comprenderlo

Secondo una ricerca Excellera–Audible, l’85% conosce il papà di Montalbano, ma sette su dieci trovano complesso il suo mix di italiano e siciliano; cresce l’interesse per audiolibri e dialetti come patrimonio da preservare

Conosciutissimo, ma a tratti difficile da capire. È così che gli italiani definiscono Andrea Camilleri, di cui il 6 settembre ricorre il centenario dalla nascita. Lo riporta una ricerca realizzata da Excellera Intelligence – per conto di Amazon Audible – su un campione di 1200 persone, intitolata ‘Gli italiani e il dialetto nel centenario di Camilleri’. Oltre otto italiani su dieci (l’85%) dicono di conoscere il papà di Montalbano. Buona parte della sua popolarità è dovuta alle serie tv e ai film (62%), mentre le sue opere letterarie sono note al 40% delle persone. Quando si chiede di citare un importante autore dialettale, al primo posto c’è Trilussa (nominato dal 20% delle persone), ma subito dopo Camilleri (12%). Segue Eduardo de Filippo (11%). C’è, però, un problema. In sette su dieci, infatti, hanno avuto qualche difficoltà a capire la lingua camilleriana, ovvero quel mix tra italiano e un siciliano rielaborato dalla fantasia e dalle suggestioni dell’autore di Porto Empedocle.

Un modo di scrivere particolarissimo e a cui si deve il fascino che gli oltre cento libri di Camilleri hanno avuto sugli italiani (e non solo). Se i dialetti sono delle lingue visive, perché le loro parole rappresentano immagini fantasiose e sono spesso associate a gesti, espressioni e smorfie – anche per questo spesso li usiamo per scherzare – una soluzione per capirli meglio, in realtà, può nascere dall’ascolto. Gli stessi partecipanti che dicono di aver trovato complesso il siciliano dello scrittore, infatti, credono che ascoltarne le opere in formato audiolibro possa essere una soluzione. Insomma: occhi chiusi, quasi come Tiresia, e orecchie ben attente per lasciarsi trasportare dalla musicalità della lingua.

D’altronde, i nostri idiomi regionali sono – come diceva lo stesso Camilleri – “la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare” (Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, ‘La lingua batte dove il dente duole’, Editori Laterza, 2013). Lo confermano gli intervistati. Oltre la metà di loro usa il dialetto nei momenti legati alla famiglia (55%) e agli amici (49%), in cui è necessario sfoderare una capacità espressiva che non è presente in italiano e, invece, nel dialetto trova la sua casa. Per quattro persone su dieci, poi, è il modo giusto per far battute che altrimenti non si riuscirebbero a fare, mentre per il 34% è uno strumento per esprimere emozioni intense.

Eppure, le lingue regionali rischiano di sparire, e in tante città sentirle è già più unico che raro. A questo si aggiunge il fatto che, soprattutto per i dialetti del Sud, è ancora forte lo stigma sia fuori dalle regioni che all’interno delle stesse comunità, dove talora sono percepiti come lingue “volgari” o dell’ignoranza. Fatto sta che, però, per il 67% delle persone il dialetto andrebbe recuperato nelle conversazioni quotidiane e per oltre la metà (il 54%) andrebbe insegnato nelle scuole. In ogni caso, ancora oggi conosciamo meglio il dialetto della nostra zona di nascita rispetto all’inglese. Le persone in media si autovalutano per le loro competenze con un 6,3 per il dialetto, mentre con un 5,6 per la lingua più parlata al mondo.