Dopo il violento attacco di Trump dello scorso venerdì nella Sala Ovale della Casa Bianca nei confronti di uno Zelensky, non privo di dignità e di coraggio, l’Europa deve cambiare in forma radicale la sua politica e deve farlo in tempi assai veloci. So bene che l’impresa non è facile che comporta sacrifici enormi che il vecchio Continente non è ormai più abituata a fare, ma non esiste un’alternativa a tale ipotesi. Quello che è successo venerdì in America ci riguarda direttamente e non sarà facilmente cancellabile dalla memoria del mondo.
Europeista
Sono da sempre come tanti italiani un europeista convinto e nutro nel contempo sentimenti di riconoscenza nei riguardi dell’America per averci sostanzialmente salvati nel corso delle due guerre mondiali combattute nel secolo scorso sul suolo europeo. Sono anche disposto a riconoscere che nei decenni della guerra fredda gli Stati Uniti hanno protetto la nostra libertà attraverso una Nato sostenuta in buona parte dalle loro armi. Una difesa rassicurante che ha permesso all’Europa di impiegare le proprie risorse economiche a fini pacifici e sociali. Quasi tutto il vecchio Continente, in particolare L’Italia, forte dello scudo americano, ha potuto dotarsi di un Welfare d’eccellenza che nella ricchissima America il popolo neanche si sogna. E le benemerenze non finiscono qui. Questo grande paese ha accolto per decenni con generosità i nostri emigranti e quelli del mondo intero.
Americani di origine italiana
Il censimento più recente stima in 17,3 milioni gli americani di origine italiana presenti oggi negli Stati Uniti. Di più. Alla fine del secondo conflitto, dopo averci prima aiutato a sottrarci dalle grinfie di Hitler e di Mussolini, ci ha permesso di avviare, attraverso il piano Marshall, un miracolo economico, che ha prodotto stupore agli occhi del mondo. L’artefice principale di questo miracolo fu – chi se non lui? – Alcide De Gasperi, ormai avviato alla santità non solo nell’ufficialità della tradizione ecclesiastica ma anche nella fantasia degli italiani. Appartengo dunque a quella schiera di italiani carichi di riconoscenza che ha guardato alla democrazia americana con ammirazione. Pur essendo consapevole che un paese che domina per così tanto tempo in forma diretta e indiretta buona parte del mondo nasconde negli abissi della propria storia un numero infinito di malefatte e di ingiustizie, perpetrate spesso sulla pelle di popoli inermi. Malgrado queste brutture che rappresentano quasi sempre il tributo che si paga alla parte algida del potere, mi è sempre egoisticamente piaciuto sentirmi protetto in quanto appartenente ad un Occidente privilegiato da cui in secoli lontani erano sgorgati umanesimo e democrazia. Quella “Città sulla Collina” a cui molti americani guardano con fierezza come a un inconfutabile simbolo di alterità, ho sempre pensato che per nascita un poco appartenesse anche a me.
Trump
Con Donald Trump alla sua guida il mondo americano, fatto di una democrazia d’antica importazione e di potenti contropoteri sembra disgregarsi rovinosamente. Quell’inguardabile messinscena di venerdì avvenuta nella Stanza Ovale organizzata dal capo della Casa bianca preparata nel dettaglio insieme ai suoi gerarchi ai danni di Zelensky, per ingraziarsi Putin, è stato il suo atto ufficiale del passaggio dalla democrazia alla dittatura. Ho accennato a tale eventualità in un precedente articolo. Gli ultimi gesti del tycoon americano la rafforzano. Intendiamoci. Non penso affatto che Trump organizzerà una marcia dei suoi complici scagionati alla volta di Capitolo Hill, come quella del 1922 su Roma. Probabilmente il suo primo approccio al cambio di regime verterà fra qualche mese sulla necessità di inserire nella Costituzione americana un’ipotesi di terzo mandato, per portare a termine il suo programma.
Le alleanze che intende costruire, gli interessi palesi che intende perseguire, a fronte di disuguaglianze che si accentuano a vista d’occhio, i concetti violenti che esprime così lontani dal valore tradizionale di una leadership, ma più consoni al capo di una tribù, tutte queste cose insieme devono convincere l’Europa che non c’è più tempo da perdere.
Zelensky
L’incontro avvenuto a Londra, in compagnia di tredici paesi con uno Zelenky rinfrancato accanto Macron e Starmer, i due soli leader di paesi che in Europa dispongono dell’atomica, la ribadita volontà di difendere la pace in Ucraina, la telefonata di Meloni a Trump prima dell’incontro per tentare di scongiurare le divisioni che pure esistono appaiono tutti buoni propositi, ma in sostanza risulta difficile fidarsi ancora dell’America. Con il tycoon alla sua guida gli equilibri del mondo sono cambiati per sempre.
L’Europa deve cambiare nell’immediato le sue abitudini
L’Europa deve cambiare nell’immediato le sue abitudini. Non servono le sue estenuanti liturgie istituzionali, appaiono privi di senso i protagonismi di singoli Stati, o, come ricordò anni fa un grande scrittore tedesco, il Vecchio Continente non può più occuparsi della morfologia delle larve. Nel suo recente discorso Mario Draghi ha invitato l’Europa a comportarsi “come uno Stato”. Deve organizzare un esercito comune per difendersi dai pericoli esterni che sono sotto gli occhi di tutti e superare il nodo inestricabile dell’unanimità. Deve organizzare un esercito comune per difendersi da crescenti pericoli esterni. Su tale delicato tema qualche analista di prestigio come Sylvie Goulard, già deputata europea e consigliera di Romano Prodi quando questi era alla guida della Commissione europea, autrice di recente, di uno splendido libro sull’Europa, edito da “Il Mulino”, dal titolo accattivante “Grande da morire”, afferma un concetto semplice. Si potrebbe ripartire dalla Ced, (la famosa Comunità europea della difesa) abbandonata nel 1954 dalla volontà del Parlamento di Parigi di sospendere sine die il Trattato. Sembra fantascienza ma è invece la realtà amara con cui l’Europa deve fare i conti.
