“Lo scontro tra politica e magistratura sta assumendo toni francamente preoccupanti. Preoccupanti perché ne va della corretta dinamica dei rapporti tra poteri dello Stato. Da un lato, non spetta certo alla magistratura orientare (o, almeno, nel senso che diremo) l’indirizzo politico-legislativo, dall’altro, non può il governo interferire in quello che costituisce il proprium della giurisdizione, il compito cioè di “dire il diritto” (iurisdictio, in senso etimologico) nel caso concreto“. E’ quanto afferma Antonino Mazza Laboccetta, Avvocato – Professore di Diritto amministrativo Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. “Sussumere il caso concreto nella fattispecie astratta non è certamente operazione matematica, perché il giudice non è la (mera) “bocca della legge” di ascendenza montesquieuiana, ma è interprete vivo del diritto. È nell’attività interpretativa del giudice che la c.d. “law in books” diventa “law in action”, realtà viva, esperienza pulsante, costume, storia. E non c’è disposizione, nemmeno la più chiara, che il più delle volte non richieda di essere interpretata, e quindi letta nell’ambito dell’ordinamento giuridico, in uno con le altre disposizioni. Ché ogni disposizione non è che frammento di norma nell’unità dinamica del diritto. E in questo senso non può non riconoscersi al giudice un margine giocoforza “creativo”, dentro il quale scorre la giurisprudenza assicurando l’evoluzione del diritto nella misura necessaria a governare i fenomeni sociali”, rimarca Laboccetta.
“Il giudice è portatore di valori e orientamenti culturali”
“Non è dunque del tutto vero che in claris non fit interpretatio. E però va detto che il giudice non è portatore di alcun interesse – nemmeno valoriale o culturale – nel processo, chiamato com’è ad essere neutrale nell’interpretazione e applicazione del diritto. Certo, come ogni persona, il giudice è portatore di valori e orientamenti culturali, e, perché no, anche ideologici. Valori e orientamenti cui però non deve piegarsi quando siede sulla “cattedra di un tribunale” (prendendo qui in prestito De André) per amministrare giustizia in nome del popolo italiano. E men che mai tali valori e orientamenti debbono fare breccia nel suo c.d. “libero convincimento”. Nient’altro esprime – il libero convincimento – se non un obbligo e un divieto: da un lato, l’obbligo di attenersi ai fatti “allegati” e provati, alle prove legali, ai fatti pacifici, ai fatti notori, alle massime di esperienza, e di valutare complessivamente e globalmente tali elementi, senza gerarchie precostituite; dall’altro, il libero convincimento esprime il divieto di fare uso della c.d. scienza privata”, sottolinea Laboccetta.
“In definitiva, il giudice è soggetto solo alla legge, come perentoriamente stabilisce la nostra Costituzione (art. 101, comma 2). Ma se non può orientare la politica legislativa, è pur vero che il giudice è un tecnico cui non si può negare il diritto di esprimere nel dibattito scientifico (e non – si badi – nel dibattito pubblico [leggi pure: mediatico]) il proprio punto di vista di “addetto ai lavori”, di esperto, di studioso. Kant distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione: 2Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito” (Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, 1784)“, evidenzia Laboccetta.
Considerazioni
“Di qui qualche conclusione. Come studioso il giudice può certamente partecipare al dibattito scientifico per argomentare, con metodo, punti di forza e di debolezza degli strumenti sostanziali e processuali del nostro ordinamento e, in questo senso, orientare la politica legislativa del governo. Ma, in quanto ricopre un ufficio e nell’atto in cui svolge la sua funzione, il giudice non può prestarsi, nel dibattito pubblico (e non scientifico), ad analisi, commenti, critiche, giudizi più o meno estemporanei che inevitabilmente finiscono nel circo mediatico, così inasprendo, da un lato, i rapporti con la politica e, dall’altro, confondendo il popolo, e, soprattutto, quanti non sono attrezzati a fronteggiare argomenti di carattere giuridico. Né rientra nei limiti della continenza il fatto che il giudice esprima, nel dibattito pubblico (e non scientifico), opinioni o convincimenti culturali su vicende specifiche o in contesti specifici, senza con ciò ingenerare il sospetto, fondato o infondato che sia, di non rispondere alla neutralità che gli si richiede nell’atto in cui interpreta e applica il diritto. I giudici non solo devono essere neutrali, ma devono anche apparire tali, come si è soliti dire. Dal canto suo, il governo non può certo interferire nel procedimento interpretativo di casi e norme e nelle dinamiche del processo per impedire alla magistratura di esercitare la sua attività giurisdizionale, di ricondurre cioè il caso nella fattispecie normativa secondo gli strumenti offerti dall’ordinamento giuridico. Venendo agli ultimi motivi di attrito, lo scontro sul concetto di “Paese sicuro”, alla base della nota decisione del Tribunale di Roma, va risolto sulla base delle fonti sovranazionali e nazionali da cui deriviamo la definizione“, spiega Laboccetta.
“Abbassare i toni”
“È questione prettamente giuridica (i.e.: interpretativa) se i) in base alle fonti, “Paese sicuro” debba considerarsi quello in cui non vi sia, generalmente e costantemente, alcuna persecuzione (art. 9 Direttiva 2011/95/UE) né tortura o trattamenti o punizioni inumani o degradanti, né alcuna minaccia dovuta a violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno; se ii) in base alla Corte di giustizia UE (4 ottobre 2024 nella causa C-406/22) il diritto dell’Unione consenta o meno agli Stati membri di definire un Paese extra-UE come sicuro, se questo è libero dalle persecuzioni indicate dall’art. 9 della citata Direttiva 2011/95/UE «solo in una parte del territorio del Paese terzo interessato”. Insomma, abbassare i toni e far posare i continui polveroni è certamente la più banale delle indicazioni che si possa dare, ma, a fronte della gravissima disaffezione che ci restituisce il dato dell’astensionismo elettorale, è bene tirare i remi in barca e fermarsi a riflettere prima che la progressiva delegittimazione delle istituzioni conduca ad esiti più o meno impensati”, conclude Laboccetta