Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza e del Curatore Fallimentare, D.N., imprenditore reggino, avrebbe distratto quasi 9 milioni di euro dalla società di cui era stato amministratore unico, prima che la stessa venisse dichiarata fallita, e ciò al fine di ottenere un illecito arricchimento ed evitare che tali risorse fossero utilizzate per pagare i debiti milionari contratti negli anni.
Condannato in primo grado dal Tribunale di Messina – territorialmente competente in base alla sede legale della società – lo stesso è stato, tuttavia, assolto dalla Corte di Appello messinese.
I Giudici hanno, infatti, condiviso la tesi prospettata dal legale dell’imprenditore – l’Avv. Alfredo Foti del Foro di Roma – che, rifacendosi ad analoghi precedenti presenti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha sostenuto come la formale presenza in bilancio di tali valori patrimoniali non potesse essere elemento sufficiente per affermarne, ai fini di una condanna penale, l’effettiva esistenza: altrimenti detto, tali 9 milioni di euro sarebbero stati annotati in bilancio tramite scritture contabili fittizie effettuate con il solo scopo di occultare lo stato di grave dissesto della società.
Così, la mancata prova piena e certa della effettiva esistenza di tali 9 milioni di euro e, conseguentemente, della loro distrazione, ha determinato una sentenza assolutoria in favore dell’imprenditore; confermata, invece, la condanna di primo grado per la distrazione di una barca e di un impianto fotovoltaico – fittiziamente venduti, senza corrispettivo, a società riconducibili a suoi familiari – nonché per la bancarotta documentale.