
La siringa era in vetro, da 5 o 10 ml, e veniva bollita per disinfezione, nell’apposito contenitore, unitamente all’ago, che veniva utilizzato fino a quando non era talmente spuntato da non riuscire più a pungere. L’infermiera, comare Larenza (in vero si chiamava Maria, ma veniva chiamata col nome del marito, Lorenzo appunto, trasformato al femminile), che era anche la levatrice del paese, aspirava nella siringa il medicinale, poi con un batuffolo di cotone, impregnatissimo di alcool denaturato che bruciava tanto da spellare, strofinava la parte da infilzare, poi, quando il bruciore dell’alcool aveva preso il sopravvento, tanto da stordire ed anestetizzare la parte, zacchete un colpo secco, seguito da un urlo disumano. Non avrei potuto stare seduto per qualche giorno.
Ma l’amarezza vera era che avevo appena sostituito gli scarponcini (il mio primo paio di scarpe, in quanto le altre le avevo sempre ereditate da Paolo o Pasquale, i miei fratelli) con un mocassino bellissimo e comodissimo, color testa di moro. Era stato di Pasquale, ma mastro Paolo, il calzolaio, lo aveva sapientemente revisionato tanto da sembrare appena comprato. Il chiodo aveva infilzato suola, piede e tomaia. Il piede era stato curato. Adesso bisognava curare suola e tomaia. Infatti era ancora troppo presto, in quanto c’erano ancora alcune giornate fresche e piovose, per indossare le “scarpe di nascita”, che erano quelle che, noi bambini, preferivamo. Attendevamo l’arrivo dell’estate per passare a questo tipo di scarpe, che non si consumavano mai, anche se da color carne a fine giornata diventavano nere, che potevi immergere nel canalone del consorzio, senza timore di danneggiarle. Presentavano un solo inconveniente, quando il sole sarebbe diventato solleone, guai a dover transitare su una strada asfaltata. Per quelle mastro Paolo non avrebbe potuto far nulla.
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