Ceccato 98 – Jucandu a mmucciunedda (giocando a nascondino)

ceccato 98di Enzo Cuzzola –  A maggio le giornate erano decisamente più lunghe, che nei mesi precedenti. Per cui il gioco, dopo lo studio, si faceva più intenso e più duraturo, dato il limite del rientro a casa all’imbrunire, per cenare tutta la famiglia insieme. Se non eravamo tutti a tavola non si poteva servire. Quel giorno, decidemmo di coinvolgere nei nostri giochi anche le bambine. Erano bellissime le nostre amichette, mia cugina Franca di Nino, Sarina, Rina, Isabella, Lucia e le altre. Erano bellissime ma distanti. Infatti era difficile poterle coinvolgere nei nostri giochi, un poco perché preferivano giocare con le bambole, gioco per noi disdicevole, un poco perché i rispettivi genitori difficilmente davano il permesso per fare giochi da “maschiacci”. Ma c’era un gioco, spassosissimo e molto coinvolgente, che facevamo tutti assieme: a mmucciunedda (nascondino).

Ci radunavamo tutti nel baglio (bagghiu) della nostra contrada. Si faceva di tocco per stabilire chi dovesse fare la conta. Individuato l’addetto alla conta, questi nascondeva il volto con l’avambraccio, appoggiato al palo ( di solito un pluviale o lo spigolo di una parete), mentre gli altri si nascondevano. Ogni anfratto era buono per nascondersi, sotto scala, vecchi fusti, cunette di irrigazione, terrazzi, stalle, case dirupate e case in costruzione, già case in costruzione. Finita la conta, l’addetto iniziava la ricerca. Appena individuato il fuggitivo, iniziava la corsa, tra questi e l’addetto alla conta, se il fuggitivo toccava per primo il palo era libero, altrimenti era prigioniero. Ma la prigionia poteva durare poco, infatti, se l’ultimo dei ricercati toccava per primo il palo, liberava tutti i prigionieri, altrimenti, il primo catturato prendeva il posto dell’addetto alla conta. Era un gioco bellissimo, all’aria aperta e di grande socializzazione. Ma presentava anche esso i suoi pericoli.

Infatti laddove si giocava non erano stati individuati fantasmi, ragion per cui non c’era limite al nostro spingerci alla ricerca di un “nascondiglio”. Fu così che quel pomeriggio mi avventurai in una casa in costruzione. Avevano appena disarmato (levata la carpenteria) una soletta. C’erano in giro tanti chiodi, ma soprattutto tante tavolette infilzate di pericolosissimi chiodi, che cercavano un piede da trafiggere. Fu così che mi infilzai tra l’alluce e l’illice (almeno così lo chiamò il farmacista). Rimasi lì impalato, urlando di dolore, arrivarono Lorenzo e Ciccio, uno dei più grandicelli, che, quando giocavamo a calcio, faceva il mister, ed era molto esperto. Ciccio mi prese la gamba come per ferrare un cavallo e sfilò prontamente chiodo e tavoletta. Poi di corsa in farmacia, dove il dottore Abenavoli lavò e curò la ferita con acqua ossigenata. Poi di corsa a casa a fare l’antitetanica, una goduria, dati gli aghi spuntati, bolliti per disinfezione in acqua, che venivano utilizzati.

Ogni volta, ormai raramente, che vedo dei bimbi giocare a nascondino, mi ricordo il dolore. Ma ci giocherei ancora…

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