Anche la ‘ndrangheta non poteva restare immune al fenomeno poker, sollecita com’è sempre nel cogliere le opportunità che il progresso riesce ad offrire.
Tra i vari mutamenti che negli ultimi decenni si erano avuti in seno all’organizzazione, si era evidenziata una classe dirigente nuova, composta da elementi che avevano studiato e che spesso ricoprivano importanti ruoli professionali nella società.
Al fine di potersi concentrare sul business, senza perdere tempo in fastidiosi e costosi conflitti, i nuovi boss pensarono di modificare l’iter da seguire per risolvere, in futuro, tutte le diatribe interne, stabilire le percentuali di spartizione dei proventi delle varie attività, nonché fissare le modalità di avanzamento nelle carriere all’interno dell’organizzazione.
E come?
Semplice: sostituendo le guerre interne con tornei di poker “all’americana”.
Per la verità i vecchi capi ‘ndrina non avevano molta dimestichezza con il texas hold’em, a meno che non avessero trascorso qualche anno in America.
Preferivano, infatti, tutti il poker classico a cinque carte.
Ma la classe dirigente emergente intuì subito che il nuovo poker poteva rappresentare il futuro del sodalizio e decise pertanto di cavalcarne l’onda.
D’altra parte, la cosa era già riuscita nel contesto della Chiesa e in campo politico nazionale; non si capiva per quale motivo non sarebbe dovuta funzionare anche nell’ambente ‘ndranghetistico.
Furono così inviati dei giovani affiliati a Las Vegas, presso dei cugini, per fare uno stage ed imparare tutto sul gioco del texas hold’em e sull’organizzazione dei tornei.
I giovani portarono in dono ai cugini un container con pomodori secchi, melanzane sott’olio, ‘nduja e soppressata, tutti prodotti genuini e di alta qualità messi a disposizione dalle varie ‘ndrine.
Tornarono dopo qualche mese, completamente formati ed iniziarono subito a fare, a loro volta, opera di formazione nei confronti dei colleghi.
Si arrivò finalmente al primo torneo ufficiale, cui erano stati invitati, per non far torto a nessuno, giocatori appartenenti a tutte le cosche della ‘Ndrangheta.
Come osservatori furono invitate delegazioni di Cosa Nostra, Camorra e cartelli colombiani.
I capi ‘Ndrangheta pensavano così di poter dare una dimostrazione di forza a tutte le altre organizzazioni, che non erano certamente preparate al gioco come lo erano invece loro.
Il giorno dell’inaugurazione, oltre ai giocatori provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero ed agli osservatori, erano presenti in gran numero politici locali e nazionali.
Il servizio era di prim’ordine e i dealer erano tutte persone fidate.
L’organizzazione era perfetta.
S’iniziò così a giocare.
Ancora nelle fasi iniziali, ad un tavolo il dealer intimò a due giocatori che avevano messo tutte le loro chip nel piatto: show down[1], invitandoli così a mostrare le proprie carte.
Ma nessuno dei due giocatori, appartenenti a cosche diverse, intendeva mostrarle.
Ognuno di essi affermava di non voler accettare ordini da nessuno e ribadiva che avrebbe deciso lui e solo lui se, quando e a chi farle vedere.
Naturalmente si creò un certo trambusto e fu chiamato il direttore di gioco per cercare una soluzione.
Ma entrambi i giocatori, visto che quello apparteneva ad una terza cosca, non gli riconoscevano alcuna autorità e, pertanto, lo stesso non si poté nemmeno esprimere.
Fatti analoghi iniziarono a presentarsi in altri tavoli e tutti con il medesimo esito.
Agli organizzatori non rimase così altra scelta che annullare il torneo, abbandonando le idee di cambiamento.
E così la ‘Ndrangheta continuò a risolvere le sue controversie come aveva sempre fatto in passato.
[1] show down: l’atto di scoprire le proprie carte al fine di determinare il vincitore della mano
Saverio Spinelli
