Cozza: “questo il mio gol più bello alla Reggina, ma quei fischi… Foti? Quando mi chiamava ‘amore mio’…”

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Ciccio Cozza racconta il suo passato alla Reggina: dagli aneddoti con Foti e Martino agli allenatori e a qualche fischio che ancora non ha ben capito

Potrebbe scrivere un libro. Ciccio Cozza, a Reggio Calabria, è un monumento. Ne ha, di storie da raccontare. Per il vissuto, per il ricordo lasciato. Nel suo intervento a Radio Febea, non solo presente, ma anche passato. Tanto. Sin da quei fischi in un Reggina-Napoli che confessa di non aver tutt’ora capito: “Non so se erano per me o per il mister che mi stava sostituendo in quel momento. E’ stata una sostituzione fatta in buona fede, non bella, ma fa parte del gioco. Allora erano dei fischi immeritati e inutili, messi in giro per cose stupide che erano nate, ma poi ho ribaltato la medaglia e fatto vedere a tutti chi era il vero Ciccio Cozza. Non avevo capito quei fischi e non li ho ancora capiti”.

Poi il gol più bello e gli allenatori del passato: “Il gol simbolo di Cozza con la Reggina? Quello di Bergamo (gara di ritorno nello spareggio, ndr), perché mi porta un ricordo particolare subito successivo alla morte di mio padre. E’ stato da una parte fortunato e dall’altra voluto, anche perché nelle due partite non meritavamo di perdere. Allenatori? In due insegnavano veramente calcio: Guidolin e Prandelli ti spiegavano anche le virgole e ti tenevano due ore mezzo lì, anche col freddo. De Canio invece ti faceva divertire, pensava solo al bel gioco, e così ha fatto a Reggio. In qualche trasferta ha esagerato, come a Torino, ma non aveva paura di nulla e se la giocava alla pari con tutti. Mazzarri era sempre sul pezzo, giocava sull’avversario e gli dicevamo che aveva gli scheletri nell’armadio. A chi sono più legato? Bolchi, che oltre ad essere un padre mi ha insegnato tutto quello che riguarda il calcio”.

E poi, sempre in merito a quegli anni, Cozza racconta di Foti e Martino: “Foti mi ha fatto capire come funzionava il mondo del calcio. Ultimamente non lo sto vedendo, però per me è come un padre. Quando mi vedeva da lontano mi faceva “amore mio” e io già lì mi preoccupavo. Lo stesso vale per il direttore Martino che a 12 anni mi prelevò da una società e disse “datemi qualche bistecca che lo rimetto in sesto”, visto che ero magrolino. Allora giocavo anche a tennis e dovevo scegliere cosa fare”.

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