Accadde oggi: 240 anni fa il terremoto e il terribile maremoto di Scilla

Tra il 1783 ed il 1785 la Calabria meridionale visse quella che i sismologi chiamano la grande “crisi sismica”: un terribile maremoto colpì Scilla causando la morte di quasi 1700 persone

StrettoWeb

E’ accaduto nella notte tra il 6 e il 7 febbraio 1783. Un maremoto, seguito ad un terremoto, causò la morte di centinaia di persone a Scilla, oggi ricercata meta turistica, tra le più suggestive della Calabria. A livello sismico era un periodo ‘caldo’. Tra il 1783 ed il 1785 la Calabria meridionale visse quella che i sismologi chiamano la grande “crisi sismica”, caratterizzata da una lunga serie di terremoti, spesso disastrosi, che modificarono definitivamente la morfologia del territorio. La crisi sismica calabrese arrivò al culmine tra il Febbraio e il Marzo del 1783 quando, in meno meno di due mesi, si verificarono cinque grandi terremoti, a ciascuno dei quali si associò uno maremoto, tutti di diversa portata.

Ma cosa accadde a Scilla? Enrico Pescatore, autore del libro “Faraglioni e tempeste”, ha analizzato e narrato più volte quegli eventi. Nel suo libro, in particolare, racconta la storia di Scilla “tra terremoti e mareggiate” soffermandosi sui bellissimi Faraglioni, importanti proprio per difendere la costa dalle mareggiate e resistenti anche ai terremoti.

L’assurda superstizione, viva ancora oggi, che a seguito di stagioni estive particolarmente calde, come fu quella del 1782, seguita da piogge continue e violente fino al mese di Gennaio, ebbe origine, quando nel 1783, nella provincia di Reggio Calabria si verificò un intenso sciame sismico caratterizzato da 949 scosse – scrive Pescatore -. Questo intenso fenomeno naturale culminò con due gravi terremoti, il 5 e il 6 febbraio con epicentro rispettivamente in Aspromonte e a Scilla. La mattina del 5 febbraio il paesino di Scilla, come scrive il canonico Giovanni Minasi, si presentava con un cielo coperto di nubi e mentre cadeva una pioggia sottile, verso le 13 si mosse la terra in modo assai violento, tanto che crollarono moltissimi edifici, causando la morte improvvisa di 175 persone”.

Il più grave danno fu prodotto dalla caduta della cupola e della crociera della Chiesa Matrice che franando dalla parte del rione dei pescatori, Chianalea, travolse oltre 10 case. Una porzione dell’altopiano “Utra”, dirimpetto alla Bastia nel quartiere più in alto, San Giorgio, franò nel sottoposto Torrente “Li urni”, il cui nome antico indicava la presenza lungo l’asta fluviale di “urne” di acqua formando delle piccole vasche naturali. Avvenuto il primo terremoto, ognuno cercava rifugio nei luoghi aperti, accampandosi in modo provvisorio nelle baracche costruite alla meglio con legname e tavole recuperate in giro. Tanti invece cercarono rifugio nelle barche che furono rovesciate sulla spiaggia per coprirsi dal freddo, trovando così un comodo riparo e portando con sé anche gli oggetti più preziosi. Infatti sia nel quartiere di Marina Grande che all’Oliveto si raccolsero in quella notte circa duemila cittadini scillesi”, racconta ancora Pescatore.

Diverse costruzioni vennero lesionate. La popolazione era nel panico e tutti si affidarono ai consigli dei ‘Signori’ locali: si rifugiarono sulla spiaggia. Fu questo l’errore che costò loro la vita. Poco dopo una forte scossa, infatti, avvenne una frana: nel giro di uno-due minuti un’enorme ondata si abbatté su Marina Grande, travolgendo la popolazione che credeva di essere al sicuro. Il mare seppellì tutto, risalendo il vallone del torrente Livorno per diverse decine di metri, inondando anche Chianalea e la zona di Oliveto.

“Dopo una fortissima scossa di terremoto avvertita alle una e un quarto di notte con epicentro a Scilla, quindi il 6 Febbraio, anche se meno intensa di quella del giorno prima, si cominciò a sentire dalla parte di monte Pacì, un sordo e continuato fragore, poiché scoscese una grande porzione della montagna verso il mare. Questo episodio fece raccapricciare tutte le persone che stavano lì, nel cuore della notte rimanendo inermi e completamente basiti. La frana durò quasi un minuto e in breve tempo si vide da quello stesso lato, un cavallone altissimo spumeggiante che in un baleno inondò Marina Grande per circa 500 metri, ricoprendola interamente, questo maremoto causò il più grande disastro del paese di Scilla. Le onde provocate da questo fenomeno arrivarono subito alle case, risalendo per circa 200 metri dalla battigia della spiaggia fino ad arrivare al Torrente “Li Urni”, tanto da recare seri danni alla chiesa dello Spirito Santo e distruggendo altre tre case vicine. La chiesa dello Spirito Santo era stata consacrata qualche anno prima e precisamente il 7 Dicembre del 1752 su un edificio precedente, più piccolo di quasi otto metri, arrivava cioè fino alla vecchia cripta. L’esistenza di una chiesa precedente lo sappiamo dalla lapide murata al esterno dell’edificio della sacrestia. Il nuovo edificio fu costruito a spese della confraternita dei marinai dello Spirito Santo che si erano congregati di corrispondere con la quarta parte dei loro ricavi. Continuando con il maremoto, le onde provocate dal sisma sfondarono le porte dell’altra Chiesa di Santa Maria delle Grazie allagando tutto, colpirono con furia i faraglioni della rupe e passando dall’altro lato arrivarono al rione Chianalea e all’Oliveto, proprio dove si erano raccolti la moltitudine della gente”, narra ancora Enrico Pescatore

“La forza delle onde diminuì d’intensità fino a quando il mare ritornò calmo come prima. Moltissime persone furono disperse in mare e tante gravemente ferite persero la vita per mancanza di soccorsi immediati. Sul numero dei morti c’è qualche discordanza, quelli registrati dal Arciprete Don Giuseppe Ingegneri ammontarono a 1447, in tutto però perirono circa 1700 cittadini, incluse le vittime dei successivi giorni su una popolazione di 5000 abitanti. Il maremoto distrusse quasi tutte le barche degli scillesi eccetto le feluche con a bordo 175 giovani marinai che per buona sorte si trovavano in quel momento in viaggio per i loro traffici commerciali”.

“Prima del terremoto del 1783 il paese di Scilla contava circa cinquemila abitanti e il 40 % erano marinai e pescatori. L’entità del commercio svolto era di piccolo e medio cabotaggio esercitato dalle paranze e dalle feluche. Le paranze erano barche che potevano arrivare a otto metri di lunghezza e esercitavano il loro commercio nelle vicinanze, soprattutto sulle rive dello Stretto di Messina. Le feluche invece erano imbarcazioni più grandi, arrivavano anche a 19 metri di lunghezza e compivano, in genere in gruppo, uno o più viaggi l’anno verso l’alto Adriatico portando uva passa, cotone, seta ed altre merci fino a Venezia e a Trieste. Prima di imbarcarsi per il ritorno acquistavano panni di lana e di cotone, guanti, berretti, cera e altro che poi rivendevano in loco e anche in Sicilia. I proprietari delle imbarcazioni appartenevano alle famiglie storiche che si tramandavano da padre in figlio l’arte del commercio come i Baviera, Palmisano, Tuzzo, Barbera, Idone, Pontillo, Paladino, Matrà, Polistena, Gullì, Arlotta, Mansone, Morgante, Longordo, Sorace, Terranova e i Caracciolo”, conclude l’autore di “Faraglioni e tempeste”.

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