Reggio Calabria, Maurizio Cortese gestiva la ‘Ndrangheta dal carcere con l’aiuto della moglie “postina”

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Reggio Calabria, le ricostruzioni della Dda sul ruolo di Maurizio Cortese e della moglie Stefania Pitasi

Maurizio Cortese è stato capace di gestire dal carcere gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie Stefania Pitasi e le comunicazioni epistolari con altri affiliati, ma soprattutto utilizzando telefoni cellulari introdotti abusivamente all’interno delle celle. E’ quanto emerge dall’operazione “Pedigree” della Dda di Reggio Calabria che stamattina ha portato all’esecuzione di 12 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di elementi delle cosche Serraino e Libri. Pur essendo detenuto, infatti, Cortese, che negli anni ha scalato il vertice della cosca Serraino, riusciva a impartire direttive per eseguire estorsioni, ordinare danneggiamenti di esercizi commerciali, imporre la fornitura di beni e pianificare intestazioni fittizie di attività commerciali. E ci riusciva grazie a un cellulare introdotto abusivamente nel carcere che la polizia penitenziaria ha rinvenuto il 9 aprile del 2019. E’ attraverso quel mezzo, dunque, che Cortese comunicava con la moglie, che si prestava a svolgere il ruolo di “postina” delle disposizioni del marito consegnate agli altri sodali anche attraverso l’uso di un linguaggio criptico ma chiaramente attinente alle attività delittuose della cosca.

‘Ndrangheta, l’ascesa di Maurizio Cortese e il legame con le cosche reggine

L’inchiesta “Pedigree” della Dda di Reggio Calabria che stamattina ha portato all’esecuzione di 12 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di elementi di vertice, luogotenenti e affiliati alle potenti cosche Serraino e Libri, ha consentito di accertare come il vertice della cosca Serraino sia attualmente rappresentato da Maurizio Cortese, genero di Paolo Pitasi, già uomo di fiducia di Francesco Serraino, il cosiddetto “boss della montagna” assassinato durante la seconda guerra di ‘ndrangheta. Nel corso degli anni, infatti, Cortese (catturato da latitante nel 2017) ha acquisito un’importanza sempre maggiore nell’ambito dei gruppi mafiosi, riuscendo a scalare le gerarchie della cosca Serraino e allungando i suoi tentacoli soprattutto nel quartiere di San Sperato di Reggio Calabria. Oggi, però, la consorteria criminale diretta da Cortese risulta essere ben strutturata e rafforzata soprattutto per via dei legami coltivati con esponenti carismatici di altre potenti cosche di Reggio Calabria che gli hanno consentito l’ascesa al vertice. Molto stretto, ad esempio, è il legame coi capi storici della cosca Labate, che la fa da padrone nei quartieri cittadini di Gebbione e Sbarre, e proficuo è il rapporto con la cosca Libri. Ben solide, però, è anche il legame con la potente ‘ndrina De Stefano-Tegano, in particolare con Luigi Molinetti, storico esponente del clan di Archi arrestato di recente nell’ambito dell’operazione Malefix.

I dettagli sulla detenzione di Maurizio Cortese in carcere con il cellulare

L’inchiesta della Dda di Reggio Calabria ha consentito di accertare come il vertice della cosca Serraino sia attualmente rappresentato da Maurizio Cortese, genero di Paolo Pitasi, gia’ uomo di fiducia di Francesco Serraino, il “boss della montagna”, assassinato durante la seconda guerra di ‘ndrangheta. Nel corso degli anni, Cortese – catturato da latitante nel 2017 dalla Squadra Mobile e dai Carabinieri – ha acquisito una sempre maggiore importanza nell’ambito dei gruppi mafiosi, riuscendo a scalare le gerarchie della cosca Serraino. Cortese, in particolare, e’ riuscito a gestire dal carcere gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie, Stefania Pitasi, le comunicazioni epistolari con altri affiliati, nonche’ con l’utilizzo di apparecchi telefonici cellulari introdotti abusivamente all’interno del carcere. Pur essendo detenuto, quindi, Cortese ha continuato a svolgere le sue funzioni di capo cosca, impartendo direttive dal carcere per eseguire estorsioni, ordinare danneggiamenti di esercizi commerciali, imporre la fornitura di beni e per pianificare intestazioni fittizie di attivita’ commerciali. Dall’indagine sono emersi diversi elementi che dimostrano come il capocosca avesse a disposizione in carcere un telefono cellulare – rinvenuto il 9 aprile 2019 dalla Polizia Penitenziaria – con il quale riusciva a comunicare riservatamente con l’esterno e ad impartire disposizioni alla moglie la quale si prestava a fare da postina e ad altri sodali, “con l’uso di un linguaggio criptico – riferiscono gli investigatori – ma attinente alle dinamiche e alle attivita’ delittuose della cosca di cui continuava a tenere le redini nonostante lo stato di detenzione”.

La ‘Ndrangheta di Reggio Calabria, il “triplo valore” delle “doti della montagna” e l’imbarazzo del pizzo, “preferisco sparare a uno, se è giusto, che chiedere soldi”: 12 arrestati, tutti i NOMI e le INTERCETTAZIONI dell’operazione “Pedigree”

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