Il fastidio di pensare – I lavori fini a sé stessi

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Quando, dopo avere pagato un capo impresa gli dissi “Beh, spero che questi lavori possano durare almeno per cinquant’anni!” lui sorrise e rispose, tra il serio e il faceto “E così allora noi quando lavoreremmo?”. Fu una frase che mi fece pensare molto, soprattutto dopo che avevo sborsato qualche migliaio di euro. È la legge di un capitalismo cinico e rapace: creare sempre nuovi bisogni, per dare vita a sempre nuovo mercato. In termine tecnico si chiama obsolescenza programmata: fare in modo che ogni cosa abbia una sua durata limitata per avere bisogno di essere sostituita e necessitare di sempre nuovo lavoro e sempre nuova spesa. A differenza del mondo antico, che quando creava aveva di fronte l’eternità, il mondo moderno ha di mira la senescenza. Non l’imponenza delle piramidi egizie, la grandezza delle statue greche o la stupefacenza delle grandi cattedrali medioevali che hanno sfidato lo scorrere dei secoli … rinnova appena la facciata di un condominio e dopo vent’anni ecco comparire le prime crepe e subito dici: “Beh, certo, d’altronde ne è passato di tempo”, e non ci rendiamo conto di quanto ormai abbiamo deformato il concetto di tempo. Ma questa economia di mercato teniamocela anche stretta: quando per la prima volta arrivarono in Occidente le vittime del mondo sovietico portarono anche i frutti della loro tecnologia, ed erano orologi, macchine fotografiche e via dicendo che erano perfettamente funzionanti da decenni, così come immagino che nelle loro case i frigoriferi e i televisori non avessero mai avuto un problema, ma bastava confrontarle con la tecnologia che l’Occidente metteva continuamente sul mercato per l’ansia di mettere le mani nelle nostre tasche per capire che venivano non da una diversa dimensione politica, ma da una diversa dimensione storica.

Questo capitalismo però va bene quando i soldi dimostra di meritarseli. Ma al Sud dà l’impressione i lavori di farli solo per il desiderio di giustificarli, soprattutto quando poi riguardano gli enti pubblici. Ricordo che da piccolo mi capitava di andare in giro con Rodolfo Chirico e lui si divertiva a indicarmi le bizzarrie delle cose cittadine – erano gli anni Ottanta – a cui ormai nessuno faceva più caso. Mi indicava ad esempio come in numerose vie del centro l’asfalto stradale aveva superato abbondantemente il livello del marciapiede: “Se sceglierai di vivere a Reggio ti dovrai abituare a questo suo modo d’essere, un suo vivere dove l’assurdo si è ormai intersecato con il quotidiano”. E quando poi si decise di rimuovere l’asfalto dal corso per ripristinare i vecchi lastroni non s’era terminato il lavoro che già un po’ dovunque le pietre tremolavano e si doveva stare attenti a dove si mettevano i piedi. Nella strada dove abito, una strada piccola e insignificante a ridosso del centro storico, da quando sono tornato dal mio esilio al Nord, in appena tre anni la strada è stata sventrata per ben sei volte, e tutte le volte, beninteso, con motivi più che validi: una volta c’era da passare microfibre, un’altra tubi per acqua, altre volte elettricità … cose che riguardano innanzitutto noi che ci abitiamo e quindi c’è da essere ben grati di tanto interesse, anche se per diverse settimane l’anno abbiamo davanti agli occhi scavatori, fosse, e ogni volta poi si ricopre tutto in maniera approssimativa. Al Nord tanto interesse non s’è ne è mai visto. E non perché la popolazione che si trova lì dimorata viva in maniera semiprimitiva e non gode del dono moderno dell’elettricità, o si approvvigioni d’acqua in pozzi: nulla manca in quelle case e, poiché i tubi non sono visibili sopra il marciapiedi, è da supporre che anche lì devono trovarsi sotto le strade. Eppure, al di là di qualche tombino sollevato non si vedono strade dissestate, scavatori, fosse stile Beirut anni Ottanta. Così come, sia detto en passant, non ci sono strade con lastroni tremanti, anche se magari sono stati costruite da secoli: tutto gode di invidiabile solidità. E quindi quando tornai mi vidi di nuovo immerso in mezzo a questo febbrile moto di continui lavori, tumuli di terra, strade divelte. Non che quello sia un mondo avvolto dalla stasi rispetto al feroce dinamismo che avvolge questo. Anche lì le cose cambiano, ma lo fanno con garbo: magari ti svegli la mattina e scopri che hanno asfaltato una strada e non te ne sei nemmeno accorto perché t’eri distratto un attimo. E allora viene da chiedersi: questo mondo lavorativo calabro è davvero un passo davanti a tutti, fa dei lavori dove dopo un mese di dissesto tutto è di nuovo logoro e inutile come prima d’iniziare. Ma, a dispetto della migliore imprenditoria mondiale, qui  s’è dissolta anche la corsa al rinnovo. Adesso, ad esempio, c’è una buca di un metro davanti casa mia da diversi giorni: la hanno avvolta di tela arancione e prima o poi qualcuno verrà a ricoprirla. Quando, tra qualche settimana, saranno terminati questi nuovi lavori e qualcuno verrà a ricoprirla e magari ci passeranno anche un po’ d’asfalto sopra scoprirai che tutto era precario e la prossima macchina che ridistruggerà la strada si ripresenterà in autunno e tutto riprenderà, sempre, naturalmente, con motivi più che giustificabili a tutto vantaggio dei residenti: c’è in questa città un continuo oscillare tra un’ansia eraclitea di non volere mai star fermi che però poi, alla fine, si scontra con uno spirito gattopardesco di non smuoversi da come lo si era trovato.

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