Arrestato per mafia il fratello di Rosaria Costa, la vedova Schifani che aveva commosso l’Italia: “E’ un Caino, ora si inginocchi lui”

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“Devo difendermi da mio fratello per salvare la mia vita e quella di mio figlio, capitano della Guardia di Finanza”

Rosaria Costa è la vedova di Vito Schifani, uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone che perse la vita durante la strage di Capaci. La donna aveva commosso il mondo con il discorso rivolto ai mafiosi fatto nel giorno dei funerali del marito. Oggi, un altro dramma collegato alla mafia ha colpito Rosaria: il fratello è stato arrestato per associazione mafiosa, ai boss dell’Arenella e di Vergine Maria, ovvero le borgate di Palermo dalle quali lei era fuggita via per sposare il suo Vito, un poliziotto. «Adesso inginocchiati tu, Pino, mio Caino, fratello traditore. Inginocchiati davanti a Dio e agli uomini. Chiedi perdono. E pentiti raccontando tutto quello che hai visto e sentito tra i mafiosi. Svela i nomi e gli sporchi affari di chi ti sei ritrovato vicino, stando ad accuse che sono palate di fango sulle nostre vite…».

«Adesso è il turno di Caino. Di questo debosciato che non vedo da tempo – ha dichiarato Rosaria al Corriere della Sera –, nemmeno quando corro a Palermo per assistere mia madre, alle soglie dei 90 anni, pronta per morire se qualcuno le raccontasse cosa sta accadendo. Come vorrei morire io. Travolta dalla vergogna. Ma forse un modo per uscirne, per non soffocare, per tenere ancora la testa alta c’è. E dipende da Caino…». La donna lancia un messaggio al fratello e gli fa sapere «che per salvarsi, che per salvarci adesso deve chiedere ai magistrati di essere ascoltato, di ammettere tutte le sue colpe, se ne ha, e di rivelare ogni recondito segreto, se ne conosce. Parlare e accettare il giudizio degli uomini, non solo quello di Dio».

E’ arrabbiata, delusa, ancora. Ma poi ammette: “Per me Pino resta quel fratello che ho visto crescere con mille problemi. L’adolescenza di un bullizzato. Lo chiamavano “Pino il checcho”. Per la balbuzie. Sempre isolato. A un tratto, a tredici anni, non è più andato a scuola. E ha cominciato a cercare un lavoro, a fare il manovale, il muratore» frequentando «gli ambienti malsani delle borgate palermitane. Non riesco a capire come possa essere caduto nella trappola. I mafiosi sono dei mostri che reclutano questi elementi. Soprattutto i deboli. Per farli sentire forti. Sfruttandoli. Ominicchi. Ma non può essere una attenuante per Pino che così ha rovinato la sua e la mia vita».

«Non può restare in silenzio rovinando pure i suoi ragazzi, un figlio benzinaio, una figlia estetista. Li affosserebbe per sempre. Adesso devo difendermi per salvare anche la vita di mio figlio», un capitano della Guardia di Finanza.
«Capite la vergogna che si rovescia addosso alla nostra storia per quel maledetto? Aveva quattro mesi il mio bimbo quando arrivò la strage portando via la nostra vita. Che fatica riprenderla a pezzi, provare a costruire un futuro senza Vito per quel bimbo che cresceva facendo mille domande. E io dovevo cercare le risposte. Tormenti intimi a parte, adesso sembrava che tutto si stesse rimettendo a posto. Parlo di mio figlio. Vederlo giurare fra i cadetti, superare la laurea, la prima divisa, i gradi… e le manifestazioni antimafia con il capo della polizia, con Don Ciotti, con gli altri familiari di vittime di mafia… Ecco, penso a tutto questo e chiedo scusa al mondo per avere avuto un mostro in famiglia».

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