Il fastidio di pensare – Il futuro un po’ più in là

StrettoWeb

Io non so se Salvini, nel suo modo pittoresco di muoversi, riuscirà infine a portare a termine il progetto politico del Ponte sullo Stretto. Ma so che, se non ci riuscirà lui in un momento di così favorevoli coincidenze, allora davvero quest’opera sarà solo un sogno mirifico della cultura meridionale, tanto decantata ma mai realizzabile. Ma lo sarà, infine, non per una sua presunta irrealizzabilità, termine dietro cui si vanno nascondendo vuote promesse di generazioni di politici, ma per una mancata volontà.

Ebbi per la prima volta coscienza di questa progetto nella mia lontana infanzia vedendo l’immagine del ponte su due pagine di Oggi, due di quelle grandi pagine colorate con cui di tanto in tanto si riempiono gli occhi dei lettori in questi giornali popolari . Ero nell’età in cui si crede che, se una cosa compare in un giornale allora deve esser vera, e la didascalia, in effetti, oltre alle immagini, riportava dati molto precisi; ma quando, lusingato dalla notizia, corsi a mostrar tutto ai grandi vidi sui loro volti una strana imperturbabilità. “Ma lo porta il giornale, è scritto tutto qui” insistetti quasi infastidito, fino a che uno mi disse: “Non ti fare ingannare. È da quando ero piccolo che si parla del ponte, e diventerai grande anche tu e ancora se ne parlerà”. Sono passati decenni, e il Ponte sullo Stretto è ancora una promessa e foto come quelle di tanto in tanto ricompaiono a riempire spazi sui giornali e fantasie della gente, a volte solo sfiorata a volte più blandita da diversi governi che si sono succeduti. Nel frattempo in questi anni ho vagato un po’ per questo paese e mi sono fatto un’idea di alcune cose.

Diceva Prezzolini più di un secolo fa nel suo Codice della Vita Italiana: “L’Italia si divide in due parti: una europea che arriva all’incirca a Roma, e una africana o balcanica, che va da Roma in giù. L’Italia africana o balcanica è la colonia dell’Italia Europea”. A farsene un’idea, basta fare una passeggiata per il Belpaese. Ricordo quando, da giovanissimo, in una stazione piemontese rimasi qualche minuto davanti a un treno a chiedermi come si aprisse la portiera del vagone perché non ne vedevo la maniglia, fino a che una studentessa non mi scostò e mise la mano sul sensore. Ma non ero abbacinato: venivo solo da un’altra Italia, da quella  dove i treni erano come quelli che si vedono nei film di Fantozzi, così come un viaggiatore odierno della Locride si stupirebbe che in Toscana i vagoni sono normalmente a due piani e con aria condizionata. E poi vidi, io che venivo da una regione dove se si voleva evadere c’era solo un’autostrada a due, ma che in realtà era solo a una corsia, di vedere in Veneto quattro e più corsie. Improvvisamente mi sentii come tolto dall’Italia della Ricostruzione e immerso in una improvvisa modernità: il futuro era già lì, era iniziato da chissà quanto, e non era lontano nel tempo, ma solo nello spazio. E ovunque progetti e desiderio di andare continuamente oltre, con una smania di movimento che dava finanche fastidio. In Toscana mi invitarono a scendere in strada contro l’allargamento dell’aeroporto di Firenze perché, protestavano, è inutile, ce ne sono già due internazionali e collegati benissimo a neanche un’ora, e io ascoltavo esterrefatto, io che venivo da una regione dove ne stavano chiudendo due nonostante fossero essenziali. E strade, e cantieri e trafori, e ogni volta gente in strada che si lamentava perché ci sono troppi lavori che stavano trasformando il territorio. E poi, ogni volta che tornavo al Sud, vedevo una terra sempre lasciata a imputridire, con strade rabberciate, collegamenti interrotti, dove l’interno è un mondo quasi sconosciuto da raggiungere con strade rattoppate, e dove ti presentano l’alta velocità come fosse una concessione e non un diritto perché quando arriva qualcosa in Italia si intende sempre da Milano fino a Roma, e nessuno considera che c’è un altro mezzo paese dall’altra parte. Tutto questo ha provocato nell’animo meridionale come un senso di rassegnazione, s’è interiorizzata come l’idea di far parte del lato sbagliato per cui molte cose non sono più dei diritti ma delle concessioni. Ricordo che da universitari pendolari si mormorava che il Ponte, se fosse servito a Milano, lo avrebbero fatto da chissà quanto tempo, ed è difficile non pensarlo, piuttosto che rifugiarsi dietro alti costi o difficoltà ingegneristiche. Ma più antipatica tra tutte m’è sempre sembrata quella minoranza chiassosa e  sgangherata che il Ponte non lo voleva, e si batteva scompostamente, quasi ce ne fosse bisogno, contro questo ingresso del Sud in una modernità in cui il Nord navigava da sempre. A Messina questa minoranza aveva imbrattato i palazzi cittadini con scritte firmate con le A cerchiate e a un certo punto nel mondo estremamente frammentato dell’elettorato messinese s’era anche riuscito ad eleggere un sindaco che si era subito mostrato nella sua dimensione andando simbolicamente in giro scalzo e facendo gesti eclatanti che strizzavano gli occhi agli indigenti.

Orbene, noi non disdegniamo certamente una politica che si occupi degli ultimi ed anzi riteniamo questo uno dei suoi compiti purché in questo universo non si innamori e si immerga. Questo mondo che ha nostalgie terzomondiste vede il Sud come una cartolina di una bellezza eterea in cui ogni tentativo di modificarla è anche un tentativo di corromperla e da sempre organizza proteste verso chi vorrebbe sporcarla con qualche residuo di modernità. E si è come innamorato della purezza della sua miseria sì da farne una peculiarità da difenderla verso chi vorrebbe grattarne via un po’, sì da contrapporre alla squallida prosperità del Nord una superiorità morale: siamo poveri ma belli, si diceva una volta. Ma in realtà forse, come ha osato dire Ettore Scola, la povertà alla fine abbrutisce solo, e poi comincia anche a puzzare.

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