Locri: esordio letterario di Domenico Ammendolea, autore del libro “uno scacco matto alla mentalità ‘ndranghetista”

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Locri, esordio letterario di Domenico Ammendolea: “sì alla voglia di normalità della Calabria”

La recensione sull’esordio letterario dell’avvocato di Locri: “Poco più di cento pagine che non trasmettono il solito cliché sull’organizzazione criminale più potente al mondo bensì la voglia di uscire da certi schemi ponendosi all’ascolto di chi invita a desistere più che ad insistere a togliere la vita al proprio simile”. No al riscatto, sì alla voglia di normalità della Calabria “una regione italiana come tutte le altre”

di Antonio Baldari – “Il buongiorno si vede dal mattino”. Mi balza subito alla mente l’antico adagio per fortuna ancor’oggi scomodato dalla saggezza popolare, la più efficace, nell’avere l’onore e la gioia di recensire il primo libro dell’avvocato Domenico Sergio Ammendolea da Locri; l’esordio letterario di un rappresentante del foro tra i più “caldi” in Calabria, e non solo, avente a tema “Percorso verso un omicidio” che, per deformazione professionale, chiaramente si attaglia a quanto esercitato dal legale locrese, ed osando anche affermare per deformazione sociale stante il fatto che la città di Zaleuco è purtroppo molto spesso assurta agli onori della cronaca nazionale per dei gravi fatti di sangue, su tutti l’efferato omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Franco Fortugno, dell’ormai remoto 16 ottobre 2005, e tutt’oggi impresso nella memoria e nel cuore dei calabresi di buona volontà.

Prescindendo da tale spunto socio-professionale il libro di Domenico Ammendolea non si pone nel solco western delle faide locali o, più in generale, provinciali, nazionali e mondiali in cui la ‘ndrangheta l’ha fatta e continua a farla da padrone: in buona sostanza non è un racconto di vicende più o meno reiterate su chi spara riuscendo a mandarne di più freddi sull’asfalto, no! È vero, Ammendolea prende lo spunto da un classico atteggiamento estorsivo della criminalità organizzata ai danni di una famiglia, che nel libro è la famiglia Consoli, il cui massimo rappresentante, il capofamiglia Antonio, viene barbaramente ucciso non avendo “onorato”, si fa per dire, gli accordi con coloro che lo hanno economicamente vessato al punto da metterlo in una difficoltà tale da fargli perdere la vita.

Quello che, però, balza agli occhi è una gestione “dal di dentro” della praticata estorsione, una sorta di “grandefratello” che ci informa su ciò che viene detto, vissuto, pensato, meditato all’interno della famiglia a seguito della triste vicenda, che, quindi, coinvolge tutti gli attori posti in essere: dalla moglie Caterina al figlio Vittorio che, a sua volta, porta con sé la fidanzata Lucia, e dunque una visione “corale”, se così si può dire, del misfatto, dall’alto contenuto socio-pedagogico posto che la ‘ndrangheta non è soltanto una questione “fra uomini d’onore” (quale onore?) ma che interessa tutti i soggetti partecipanti, attivi comunque e non distinti fra attivi e passivi.

Un messaggio, quello di Ammendolea, che, di riflesso, va a porsi ad incastro con quanto poi accade subito dopo l’omicidio di Antonio Consoli, che genera un…mancato omicidio, quello dell’assassino del papà di Vittorio il quale, da vecchia gestione della “cosa” vuole fortemente fare fuori colui che ha ucciso suo padre, vetusta logica ‘ndranghetista, ahinoi!, non ancora del tutto accantonata e che conduce dritti dritti all’atavica “Legge (o Pena) del Taglione”, dal latino lex talionis e risalente al Codice di Hammurabi, un principio di diritto consistente nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un’altra persona, di infliggere a quest’ultima un danno, uguale all’offesa ricevuta.

Per non dire della ripetuta formulazione nella Bibbia, con il famoso “Occhio per occhio, dente per dente” dell’Antico Testamento, che permetteva proprio di rendere un’offesa pari all’onta subìta. Ma tant’è! Il giovane Vittorio – un nomen omen giacché vincente, sul finire del libro: scelta onomastica mirata? – si mette in moto per la realizzazione del suo piano omicidiario ma, proprio sul punto di portarlo a termine, ecco la figura di Adolfo salire sul palcoscenico della storia, che gli consente di desistere e di non farsi giustizia da sé in ossequio ai sopracitati codici e regole antiche.

Ed è qui che mirabilmente nasce il secondo messaggio filtrato dal buon Domenico, ossia un patto di ferro tra generazioni per potere uscire da questa mortifera cappa della ‘ndrangheta e, per esteso, della criminalità organizzata: ‘ndrangheta intesa quale “mentalità”, modus pensandi e, conseguentemente, modus agendi, che non ci potrà mai lasciare definitivamente se si continuerà a pensarla e ad agire “come loro”, giacché ci vuole una vera e propria inversione giustappunto di pensiero ed azione per dare scacco matto alla ‘ndrangheta, che le giovani generazioni non potranno mai attuare se non con il sostegno dei capelli brizzolati o bianchi, fate vobis!, delle cosiddette “vecchie generazioni”.

Di coloro che sono stati eventualmente piagati e feriti nella carne viva dalla criminalità organizzata, e che ne conoscono le più truci conseguenze: ecco, “Percorso verso un omicidio” conduce a tutto ciò, ad un serrato dialogo, a rapporti umani fortemente intrecciati tra coloro che possono traghettarci verso il famigerato “mondo nuovo” nel quale viverci quantomeno avendo il rispetto per la vita altrui, che è peraltro essenziale per chi possa dirsi “cristiano”, religiosamente parlando, e non venerando il santino di Gesù, della Vergine Madre e di San Michele, avendolo in bella vista sul comodino, coronato financo dal Santo Rosario, per poi, però, con il fucile caricato a pallettoni fare “terra chjana” del prossimo e dei suoi inquilini: questo, come disse con veemenza San Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi, ad Agrigento, è di avversa natura rispetto alla vita che ci è stata donata, “Convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio!” – apostrofò duramente il Santo Padre polacco.

Per il resto, il libro è molto gradevole nella lettura, composto da ventisei capitoli che leggi avidamente, uno dietro l’altro, per la loro brevità e, soprattutto, perché stuzzicanti rispetto al “vediamo come va a finire”, che ti prende, ti cattura e non ti lascia se non attraccati, alla fine, al porto dell’ultima pagina: fresca è la scelta di una spruzzata a macchia di leopardo di repertorio musicale, così come si rivela ottima l’intuizione della sovrapposizione di registri linguistici, nel senso più tecnico del termine di saltellare, qua e là, fra l’italiano ed il dialetto calabrese che, grazie a quest’ultimo, in ispecie, rende il testo, l’ambientazione ed i personaggi stessi in qualche modo più veristi, nel senso più verghiano del termine.

C’è anche un non so che di poetico e molto profondo, intenso nella meditazione e nel suggerirti di meditare, da iniettare nella vena della positività e dello spirito di iniziativa dei personaggi, che non si arrendono mai, compreso il buon Antonio che per amore della famiglia desidera andare avanti benché, poi, piegato dalla mano assassina che aveva scritto per lui un tristissimo quanto inaccettabile finale che, del resto, è altrettanto inaccettabile nel momento in cui si parla della Calabria usando sempre e comunque il termine “riscatto” e mai quello della “normalità”. Perché di una regione italiana “normale” si tratta, come tutte le altre, ed il cui limite è proprio il continuo “riscatto” a cui la si lascia appesa, come, al contrario, il libro “Percorso verso un omicidio” non vuole che rimanga.

 

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