In carcere per sette mesi ma era uno scambio di persona: la storia di Domenico Forgione, scrittore e ricercatore eufemiese accusato di essere uno ‘ndranghetista

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Domenico Forgione, al momento dell’arresto, aveva paura per i suoi libri. “I poliziotti hanno chiesto a mia madre di chi fossero tutti quei volumi e lei rispose: ‘di quello che state arrestando'”

Una vita in mezzo ai libri, in mezzo alla Storia e in mezzo ai giovani. Così, in estremissima sintesi, si può descrivere la vita di Domenico Forgione, giornalista, scrittore, ricercatore storico, da sempre impegnato nel sociale. D’estate, Domenic, come tutti lo chiamano a Sant’Eufemia d’Aspromonte dove vive, si metteva alla guida di un pulmino e portava al mare un gruppo di giovani con bisogni speciali. Giovani che, diversamente, non avrebbero potuto godere di giornate libere e spensierate come quelle che Forgione e altri membri dell’Associazione di volontariato cristiano Agape offrivano loro.

Nel 2017 Domenico aveva anche deciso di scendere in politica. O meglio, gli era stato proposto di candidarsi a sindaco, come riconoscimento dopo anni spesi a impegnarsi per la comunità dalla quale, per scelta, non si era mai voluto allontanare. “La mia candidatura a sindaco è stato il risultato di un impegno che dura da quando avevo 15 anni – ci racconta lui stesso –, quindi la cosa bella, al di là del fatto che non ho vinto, è che c’era il riconoscimento per una persona che si è impegnata da sempre“. Un impegno, però, che è passato inosservato allo Stato. Già, perché il 25 febbraio 2020 Domenico Forgione è stato travolto da un uragano che lo ha cambiato per sempre, dopo il quale nulla è stato e sarà più come prima. C’era anche lui tra gli arrestati dell’inchiesta Eyphemos condotta dalla Procura di Reggio Calabria, e che ha portato in carcere decine di persone.

PUNTO E A CAPO – scrive Forgione sui social – Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo. Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza”.

Le manette ai polsi di Domenico sono scattate all’alba di quella mattina che Sant’Eufemia difficilmente dimenticherà tanto presto. “Non avevo capito cosa stesse succedendo. Hanno bussato alla porta prima dell’alba, erano sette poliziotti dei quali alcuni in borghese. Non riuscivo a realizzare perché fossero lì. Quando ho capito che mi stavano arrestando non ne compresi il motivo, ma il mio primo pensiero, la mia paura, è stata per i libri. Credevo che cercassero chissà cosa e che me li avrebbero messi sottosopra“. I libri, per Domenico, sono da sempre stati fonte di vita, di conoscenza e anche di orgoglio. La sua corposa libreria è nota a molti in paese, d’altronde lui sui libri ha fondato tutta la sua vita, e ha all’attivo diverse pubblicazioni. “I poliziotti hanno chiesto a mia madre di chi fossero tutti quei volumi e lei rispose: ‘di quello che state arrestando'”.

Per il resto, ero sicuro che mi avrebbero portato in Questura per chiedermi qualcosa in merito a fatti che al momento mi sfuggivano e poi mi avrebbero riportato a casa – racconta oggi Forgione –. Ma una volta arrivati in Questura verso le sei del mattino ho visto che c’erano tutti gli altri. Li conoscevo ma non riuscivo a fare alcun collegamento tra me e loro. Anche perché in un paese piccolo come il nostro ci conosciamo tutti, ma non avevo rapporti diretti, tranne che con qualcuno di loro dei quali avevo anche il numero di telefono, ma erano nella maggioranza mentre io ero nella minoranza”. Alle elezioni comunali del 2017, infatti, Forgione non aveva vinto ma si era guadagnato un seggio in Consiglio Comunale, sui banchi della minoranza. Ruolo che ha ricoperto fino a quel 25 febbraio. “Quando ho visto sindaco e vicesindaco ho pensato che potevamo essere lì per qualcosa che riguardava il Comune, ma proprio perché io ero all’opposizione continuavo a non capire. Non ho aperto il mio fascicolo in quel momento, dunque sono rimasto con il dubbio per diverso tempo. La prima umiliazione che ricordo in tutta questa vicenda è stata quella delle impronte digitali, del fatto che ti misurano altezza, peso, ecc. Nella mia vita non avrei mai pensato di potermi ritrovare in una situazione simile, tantomeno di finire in un carcere. Pensavo che mi potesse capitare di morire di colpo, ad esempio, ma essere arrestato proprio no”, confessa Domenico.

Non riesco a togliermi dalla testa le immagini di me che scendo per primo le scale della questura di Reggio Calabria il 25 febbraio 2020, giorno dell’operazione “Eyphemos”. Né le sentenze emesse da televisioni, giornali e quotidiani online, locali e nazionali – ha scritto Forgione in un post sulla sua pagina Facebook solo qualche giorno fa –. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: «Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza»”.

Domenico Forgione venne portato al carcere di Palmi. “Non sapevo dove sarei capitato, nei confronti di un carcere e di chi lo ‘popola’ sei sempre prevenuto. Temevo che chissà cosa mi sarebbe successo in una cella. E invece no. In un carcere c’è un’umanità varia, esattamente come fuori. Un’altra umiliazione, arrivati lì, è stata di nuovo la trafila da fare, la visita medica e tutto il resto. Sulla volante della Polizia con la quale sono arrivato mi ero addormentato. Domenico, un altro degli arrestati che è stato condotto in carcere con un’altra macchina, mi ha raccontato di avermi visto appoggiato al finestrino mentre dormivo pesantemente. Non volevo ancora aprire quel fascicolo, mentre gli altri lo avevano già letto. Sono arrivato in cella, ovviamente con persone che non conoscevo. Ricordo che mi hanno fatto mangiare pasta con la ‘nduja, piatto tipico del carcere”, ironizza Forgione sfoggiando uno dei suoi sorrisi sornioni, ironici ma taglienti. “Dopo ho aperto ‘sta cosa“, ricorda riferendosi al fascicolo contenente le sua accuse.

Un ‘veterano’ del carcere mi disse che avrei avuto freddo in cella, e infatti fu così. Non avevo mai sentito così tanto freddo, mi hanno dovuto dare coperta in più ricorda –. Ad ogni modo, mi sono messo a leggere la conversazione grazie alla quale ero stato incastrato. Erano quattro righe con un’unica conversazione. C’era un soggetto che veniva intercettato con un Troian. Le persone coinvolte nella discussione parlavano di un bando, ma io non ricordavo di aver mai detto quelle cose, non ricordavo quella conversazione. Poi si parlava di questioni di arresti, di cosche, ma io non sapevo nemmeno dell’esistenza di quelle operazioni che citavano. Mi sono sempre informato molto, compravo diversi giornali quotidianamente, ma saltavo le pagine in cui si parlava di arresti, cosche e simili, perché non mi hanno mai interessato granché. Il giorno successivo, all’interrogatorio, ho detto subito che non ero io, ho chiesto una perizia fonica, ma io stesso riuscii a sentire quella conversazione, che fino a quel momento avevo solo letto, solo verso aprile”.

La perizia fonica, però, non arrivava. Complice la situazione pandemica e il Covid che si accingeva a sconvolgere l’intero pianeta,  il direttore del carcere non voleva far entrare un perito che potesse prendere il campione vocale di Forgione per confrontarlo con la voce di colui che aveva preso parte a quella conversazione. “Abbiamo preso un perito di parte – spiega Domenico –, che ha comparato la mia voce all’interrogatorio di garanzia con quella dell’intercettazione. Nessuno è mai venuto a prendere il campione della mia voce, che poi alla fine nemmeno serviva ma è sempre stato posto come un impedimento. Il tribunale del riesame , nonostante la perizia per la quale quella voce non era la mia, ha rigettato il ricorso: secondo loro la perizia era fatta con file non puliti. Ma la verità è che tutto si sentiva benissimo, era limpido. Il 28 maggio, finalmente, hanno affidato l’incarico al Ris di Messina. Ma da quel 28 maggio io sono uscito il 16 settembre, e nel frattempo ero stato spostato da Palmi a Santa Maria Capua Vetere“.

Sette lunghi mesi di ingiusta detenzione, dunque, di fronte ai quali non possiamo fare a meno di chiedere a Domenico, attento osservatore e conoscitore della dinamiche umane: in base alla tua esperienza, il carcere italiano riabilita? Chi entra lì dentro dopo aver commesso degli errori, ha speranza di uscirne diverso, migliore?No. Il carcere non riabilita, chi vi entra da delinquente vi esce allo stesso modo, perché non vede un ‘amico’ nello Stato. Io stesso, che ero innocente, non ho più fiducia nella giustizia. Si può sbagliare, ovvio, ma di fronte a quanto emerso nel mio caso, i magistrati avrebbero dovuto quanto meno porsi dei dubbi, delle domande. Io, nel momento in cui avveniva quella conversazione, ero in un altro posto ed ero impegnato in una telefonata. Abbiamo dimostrato tutto, ma non c’è stato niente da fare”. Per i giudici contro Forgione risultava un ‘coacervo’ di indizi. E nemmeno le prove che non poteva essere lui sono bastate a far cambiare loro idea, di fronte a questo fantomatico ‘coacervo’ indiziario.

Il carcere è solo un posto dove tu non sei nessuno. Prima pensavo che vi si potesse mantenere un minimo di personalità e invece i detenuti sono solo dei numeri. L’obiettivo è l’annullamento della dignità della persona. Ci sono agenti umani e altri meno, ma come concezione filosofica la detenzione è strutturata in maniera tale che ti controllino i tempi, gli spazi, il corpo. La personalità viene annullata. Soprattutto a Santa Maria Capua Vetere ho appurato un grande consumo di psicofarmaci tra i detenuti. Non c’è alcun tipo di rieducazione”. Domenico Forgione si sentiva, per la prima volta in vita sua, abbandonato dallo Stato. “La cosa che mi ha fatto male – racconta con amarezza – è stato il fatto che la mia candidatura a sindaco era il risultato di un impegno che dura da quando avevo 15 anni, quindi la cosa bella, al di là del fatto che non ho vinto, è che c’era il riconoscimento per una persona che si è impegnata da sempre. Riconoscimento che lo Stato mi ha negato, perché non è un luogo comune dire che noi qui in Calabria siamo abbandonati e perseguitati. Viviamo in realtà difficili e complicate dove è più facile perdersi che trovare la strada giusta. Arrestare sulla base del nulla qualcuno che ha sempre cercato di essere un punto di riferimento per i giovani è stato un colpo al cuore della nostra comunità, e dalla Calabria intera”.

E ora? Chiediamo a Forgione. Ora, non si sa. “Qualcuno responsabile ci deve essere, non può essere che non paghi nessuno. Se tu il tuo lavoro non lo sai fare, se non sai fare riconoscimenti e intercettazioni, fai fotocopie, piuttosto. E’ così in ogni campo, perché non dovrebbe essere così anche nella giustizia o tra le forze dell’ordine? Noi paghiamo preventivamente, eppure la carcerazione preventiva è incostituzionale. E’ stata istituita in un periodo emergenziale, ovvero quello delle Brigate Rosse, ma l’emergenza non dura da un’emergenza all’altra. Inoltre, non è che arrestando cento persone al mese risolvi il problema, anzi con questo tipo di repressione la gente si ‘incarognisce’ di più, e la ‘ndrangheta ne risulta più forte. Bisogna creare sviluppo e lavoro per fare terreno bruciato intorno alla ‘ndrangheta. E’ il sottosviluppo che crea criminalità. Il Meridione è stato visto come un problema di pubblica sicurezza dalla legge Pica in poi, e questa concezione del ‘siete tutti criminali’ ci ha portato a questi risultati”.

Domenico Forgione non è stato né il primo né l’ultimo a subire questo calvario da innocente. “Mi ha aiutato tanto capire che fuori sapevano che ero innocente – ci racconta -. E non è una cosa scontata. Compravo una ventina di francobolli ogni settimana, per rispondere a tutti coloro che mi scrivevano. Ho una scatola piena di lettere a casa“. In quei mesi, anche sui social, molti giovani eufemiesi e non avevano lanciato un’iniziativa dedicata proprio a lui e al suo blog “Messaggi nella bottiglia“, per far sentire una voce che, dalle profondità di una cella di un carcere campano, non poteva essere sentita.

Pensi che nell’operazione Eyphemos ci siano altre incongruenze e altri errori? Mi sembra che altri scambi di persona siano già stati in qualche modo ammessi. L’errore è umano, ma il problema sono le leggi. La carcerazione preventiva è inconcepibile, tranne per i casi di flagranza di reato”.

Hai detto che il carcere ti cambia. Esci che sei un’altra persona. Questo ha cambiato il tuo rapporto con la tua famiglia e con la società in generale? Ha cambiato il mio modo di vedere la giustizia. “Male non fare, paura non avere” o “se l’hanno arrestato qualcosa ha commesso”. Ecco, ho rivisto la mia opinione a riguardo. Per il resto no, questa tragica esperienza mi ha aperto un mondo che non conoscevo, le cui problematiche sto iniziando a studiare. Mi ha fatto anche conoscere un personaggio straordinario come don Silvio Mesiti, il cappellano del carcere di Palmi. Un incontro che probabilmente non avrei fatto nella mia vita e che mi ha dato tanto”.

Ha ripreso a studiare, dunque, Domenico. Perché è ciò che ha sempre amato fare. E a breve uscirà un altro suo libro, dopo una ricerca durata 15 anni. Parla della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte in epoca contemporanea. Un altro dei suoi contributi per un Comune che, dopo l’operazione Eyphemos, si è ritrovato catapultato in un’atmosfera quasi surreale, con famiglie distrutte per sempre e giovani che se ne vanno. Cambierà qualcosa? Forse, ma ci vorrebbe un segnale forte da parte dello Stato. Un miracolo, praticamente.

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