Messina: il Castello Rufo Ruffo e la leggenda del fantasma che si aggira dentro la fortezza

StrettoWeb

Il Castello Rufo Ruffo, situato a Scaletta Zanclea, è una fortezza voluta dal Re di Sicilia Federico II di Svevia nel 1220: storia e leggenda

E’ una delle meraviglie storiche più famose della provincia di Messina. Il Castello Rufo Ruffo, situato a Scaletta Zanclea, arroccato sul punto più alto della rupe di cui ne asseconda le asperità naturali, è una fortezza voluta dal Re di Sicilia Federico II di Svevia nel 1220. Il massiccio impianto a forma di trapezio e l’elevata verticalità delle pareti sono alleggeriti dalle eleganti bifore che si aprono sui vari prospetti mentre all’interno troviamo ampie sale bene illuminate con alte volte a botte, per cui, più che una cupa e minacciosa fortezza, richiama un “Dongione”, residenza elegante e sfarzosa del Feudatario. Sul lato orientale la fortezza avanzata dove, nel ‘600 vennero installate numerose bocche da fuoco che resero invulnerabile la costa. Luogo privilegiato, ricco di storia e di avventure, vide le gesta di personaggi di notevole spessore: dalla baldanzosa Macalda da Scaletta o l’Imperatore Carlo V che vi sostò nel 1535. Nell’atrio un’antica costruzione segna il basamento di una torre preesistente. Nel corso del tempo il Castello non è stato risparmiato dagli attacchi dei nemici, ma anche dell’incuria degli uomini, e ne reca i segni evidenti. Nel 1969 il Principe Ruffo, appartenente alla nobile famiglia originaria della Calabria che acquistò il feudo di Scaletta nel XVII° secolo, lo dona al Comune. Negli anni ’80 invece, a cura della Soprintendenza e del Comune, è stato avviato un restauro accurato.

La leggenda di Macalda

La leggenda narra che, ormai caduto in disgrazia e sospettato di congiura, Alaimo incontrò la forte ostilità di Giacomo II d’Aragona: bersagliato da accuse infondate, fu invitato da Giacomo a recarsi in visita dal Re Pietro in Aragona. Partì per Barcellona il 19 novembre 1284, incontrando la cordiale accoglienza del re, da cui fu tenuto però sotto una sorveglianza così stretta da potersi considerare prigioniero. La partenza di Alaimo mise in fermento il suo entourage e diede intanto la possibilità ai suoi oppositori di individuarne i presunti complici. Tra questi anche Macalda, che venne imprigionata insieme ai figli nel castello di Messina, poco dopo la partenza del marito, il 19 febbraio 1285. Sorte ben peggiore era invece toccata poco prima a suo fratello Matteo junior, giustiziato ad Agrigento, il 13 gennaio 1285, per decapitazione a fil di mannaia.

Alaimo fu trattenuto a lungo in Spagna, risparmiato dalla sincera benevolenza di cui poteva ancora godere presso Pietro d’Aragona finché quest’ultimo fu in vita. Morto però il Re d’Aragona, Alaimo non sopravvisse all’avversione di Giacomo II d’Aragona, che convinse il fratello primogenito Alfonso III a darglielo in consegna: nell’agosto 1287, senza che ancora fosse esaudita la sua pretesa di un regolare processo, fu affidato agli inviati di Giacomo, Gilberto de Castelletto e Bertrando de Cannellis, apparentemente per essere rispedito in Sicilia; durante quel viaggio che avrebbe dovuto ricondurlo in patria, a lui e a suo nipote Adenolfo da Mineo fu letta la condanna a morte pronunciata da Giacomo, poi sommariamente eseguita per annegamento di entrambi: quando la nave era ormai in vista della costa, furono avvolti in lenzuoli zavorrati e gettati vivi in mare (la cosiddetta mazzeratura).

Insieme alla storia di Macalda e Alaimo, si consumava anche la parabola del Vespro: molte delle grandi attese suscitate al suo nascere erano rimaste deluse, mentre lo sviluppo degli eventi aveva finito per fagocitare anche protagonisti di primissimo piano, come Gualtieri di Caltagirone, giustiziato nel 1283 proprio per mano di Alaimo, allora Gran Giustiziere del Regno, e come Palmeri Abbate, guardato con sospetto e messo momentaneamente in disparte per presunta intelligenza col nemico. La coscienza di questa metamorfosi può cogliersi nelle amare parole con cui Macalda stigmatizza l’imprevista piega assunta dagli eventi. Ecco come Macalda si sarebbe espressa, rivolta all’ammiraglio Ruggero di Lauria, venuto avidamente a farle visita in carcere per riavere il possesso le carte del feudo di Ficarra a lui spettante: “noi lo abbiam chiamato e fattolo nostro compagno non già nostro Signore; ma egli recatosi in mano il dominio del regno, noi suoi sozii tratta siccome servi”.

Dall’epoca della sua reclusione, dopo le notizie sulla sua orgogliosa allocuzione a Ruggero di Lauria e quelle sui suoi intrattenimenti nel carcere di Matagrifone, di Macalda non si ebbe più traccia nelle cronache coeve, un silenzio che ha autorizzato gli storici a presumerne la morte pochi anni dopo. Esiste tuttavia un documento d’archivio che ce la ricorda ancora in vita il 3 dicembre 1307, quando Macalda Scaletta, a fronte di probabili difficoltà finanziarie della seconda vedovanza, sottoscrive un contratto con cui affitta a tale Mastro Pagano Barberio, per una durata di 22 anni, servitia et operas di una sua serva Anna, di origine greca (ancillam de Romania). La data del 3 dicembre 1307, diviene così il terminus post quem per la morte della donna, che alcuni autori, ad esempio, collocano convenzionalmente al 1305. Si narra comunque che tuttora nel castello gira ossessionato dalla vendetta il fantasma di Macalda, un’innocente vittima.

Condividi