Il ‘talento’ di Renzi, Conte inebriato dal potere e le fragilità del sistema politico italiano: Draghi sia autore di una svolta costituzionale

Non è Renzi a rendere debole Conte, ma il sistema politico: questo anno trascorso con il flagello della pandemia ha fatto notare quante siano state le decisioni assunte dalle Regioni contestate dal Governo, impedito di esercitare una propria supremazia su temi spesso di interesse nazionale

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Una larga maggioranza di italiani attribuisce a Matteo Renzi la responsabilità dell’attuale crisi. Difficile dar loro torto. Il personaggio è fatto così. Ha una straordinaria familiarità col rischio di cui la politica è intessuta. Fin dalla sua prima apparizione  sulla scena nazionale ha però mostrato un notevole talento politico. Chi oggi, influenzato dalle sue ultime sciagurate imprese, tende a negarlo, sbaglia. D’altra parte, se in questi giorni, con i sondaggi che impietosamente lo danno al due per cento, è riuscito  a far dimettere il governo Conte, un certo talento, magari volto al male, deve possederlo. Il personaggio però è vessato da due immensi difetti che tra loro si integrano. Il primo. Una grande autostima – tratto molto diffuso nei fiorentini – incistata in un carattere difficile. Secondo. Una spiccata insofferenza per il dissenso. Il “carattere” di un individuo, quando è accentuato, in Italia non viene perdonato neanche all’interno di una famiglia, figuriamoci in politica dove le antipatie, i rancori spesso, per una tradizione nazionale, si sotterrano quando il bersaglio da colpire è sulla cresta dell’onda per poi esplodere con fragore quando lo stesso appare in difficoltà. La discesa dal picco del 40 per cento  del consenso conseguito dall’ex premier alle elezioni europee del 2014, alla malinconica percentuale del due per cento, stima dei sondaggi di oggi, è la dimostrazione inconfutabile di tale assunto. Per quanto riguarda il dissenso è risaputo come Renzi, specie quando era all’apogeo del successo politico, non lo gradisse affatto. Neanche quello dei suoi più fidati collaboratori. Eppure a un uomo di media cultura dovrebbe essere noto come il disaccordo rappresenti una risorsa per gli uomini perché aiuta ad illuminare gli angoli oscuri della conoscenza.

Una minoranza di italiani però, la colpa della crisi, l’attribuisce invece a Conte. Il quale, dopo avere imparato in tempi brevi e in maniera eccellente un mestiere difficile, negli ultimi mesi, soggiogato da un’inebriante vertigine di potere – afrodisiaco a cui difficilmente si resiste –  ha compiuto errori imperdonabili specie nella scelta dei tempi, che in politica non è virtù secondaria. Una breve digressione. Un democristiano di qualità era solito anni fa affermare che in un’impresa politica la scelta del tempo vale nella misura del 70 per cento, tutte le altre risorse di un leader, intuizione, intelligenza e anche un po’ la fortuna sono racchiuse nel restante trenta per cento. Forse è un’esagerazione, ma non ne sono molto convinto.

Per fortuna Mattarella, dopo due mesi di parole inutili, ha tirato dal cilindro un personaggio come Draghi che agli occhi degli italiani appare come una risorsa non comune per utilizzare nella direzione giusta i 209 miliardi del Recovery, concessi dall’Europa.

Non vorrei però che la crisi drammatica di questi mesi, tutta incentrata sui nomi e poco sui problemi, tenesse in ombra il tema dei temi che angustia da sempre l’Italia,  rendendola fragile al cospetto degli altri Paesi democratici del vecchio Continente: il sistema istituzionale. Si pensi per un attimo a quanti errori ha compiuto Macron in questi anni della sua presidenza ed a quelli commessi più di recente dal premier britannico Johnson nel corso di questa pandemia. Entrambi tutelati da due efficienti sistemi istituzionali.

La Repubblica parlamentare immaginata dai padri costituenti quando era ancora vivo l’eco nefasto del fascismo, che, dopo il delitto Matteotti, si era con estrema facilità impadronito del Parlamento, non è più in grado di fronteggiare in forma adeguata i grandi problemi del nostro tempo. La loro complessità ha certo bisogno di mediazioni, ma nella maggior parte dei casi, di decisioni. L’esigenza di una riforma costituzionale capace d’incidere sulla replicazione dei compiti delle due Camere e soprattutto sulla forma di governo e quindi sui poteri del Presidente del Consiglio, affiora di tanto in tanto nel nostro Paese sia a livello di classe politica, che di opinione pubblica attraverso zaffate emotive, fuochi fatui destinati a spegnersi in fretta. Nel corso dei decenni sono state istituite, a distanza di anni, alcune Commissioni bicamerali, tese a riformare il nostro sistema politico per favorire decisioni più veloci e snelle, tutte miseramente fallite. Non sono né Renzi, né Conte a renderci deboli ma il sistema politico, come dimostrano i 66 esecutivi e i 29 presidenti del Consiglio che si sono succeduti in 75 anni di Repubblica. Ma c’è di più. Si pensi ai poteri estesi di cui dispongono i presidenti delle regioni, inseriti oltre 20 anni fa nella nostra Costituzione. Essi dispongono dell’elezione diretta, esattamente come capita ai sindaci, ai quali una legge ordinaria conferisce poteri altrettanto estesi. Uno sguardo a questo anno trascorso con il flagello della pandemia, si noti quante sono state le decisioni assunte dalle regioni contestate dal governo centrale, impedito, tra lo stupore generale, di esercitare una propria supremazia su temi spesso di interesse nazionale.

Non credo che Draghi in questo pandemonio politico che eredita metterà mano ad una riforma costituzionale, ma sono certo che da uomo abituato a decidere, indicherà alle forze politiche tale tema come approdo futuro indispensabile al destino dell’Italia

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