Tanto rumore per nulla: ovvero perché il ‘Recovery Plan’ aggraverà il divario nord-sud

StrettoWeb

Vedremo come finirà l’alto là di Renzi al colpo di mano che il Presidente Conte – a dicembre, sull’abbrivio dei suoi dpcm notturni – intendeva mettere in atto anche con il ‘Recovery Plan’ presentando, quasi motu proprio, un pacchetto prefabbricato di progetti più o meno sensati e uno strumento di ‘governance’ dei fondi europei ad usum delphini. Ora Conte/Cavour – il ‘Cunctator’ che, nelle giravolte, è abile e spregiudicato quanto se non più di Renzi – tentando di recuperare lo scettro, ammette che c’è stato un deficit di coinvolgimento e promette il confronto con tutti.

Vedremo se l’iniziativa Renzi riuscirà a provocare un chiarimento della situazione politica e un passo avanti sostanziale nella definizione della strategia di ricostruzione: temiamo di no! Molti lo hanno accusato di avere minacciato e fatto la crisi di governo solo per ottenere vantaggi di parte. E che egli avesse questi obiettivi – la c.d. visibilità di cui ha tanto bisogno, qualche briciola di potere, qualche imbellettamento della ‘task force’ e qualche chiarimento dei dettagli gestionali – nessuno lo nega.

Con questa crisi, comunque, Renzi corre un grave pericolo: avendo contravvenuto a una delle massime fondamentali di quello che gli viene attribuito come maestro – «gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere, perché si vendicano delle leggieri offese» – egli si è ormai esposto al rischio di sparire: in futuro, egli subirà una sconfitta più grave perché gli faranno una legge elettorale ancora più punitiva per lui e, d’altra parte, si sarà alienato una larga parte degli elettori moderati sui quali contava: la prospettiva che si apre con una prossima legge elettorale proporzionale sarà quella della peggiore confusione tra fazioni impazzite – dentro e fuori la maggioranza – alla ricerca del proprio ‘particulare’.

Forse qualche garante della costituzione dovrebbe provocare il chiarimento politico e rendere noto al Parlamento che sarebbe inammissibile, moralmente e costituzionalmente, mettere mano alla legge elettorale, a pochi mesi, si spera, da nuove elezioni.

renzi Bellanova BonettiTuttavia, per quanto strumentali possano essere state le sue intimazioni sul ‘Recovery Plan (+ Mes, TAV, piano opere pubbliche, prescrizione, servizi segreti, etc.), certo, le questioni sollevate erano tutte molto fondate, soprattutto riguardo alle prospettive del fondo europeo: anzi, erano così importanti che, per rispondervi, non poteva servire che un chiarimento del quadro politico anche con il ricorso alle elezioni anticipate (ma questo sarebbe possibile solo se si credesse realmente nella democrazia e non si cercassero gli impedimenti dirimenti e gl’impedimenti impedienti per evitare il voto e, negli ultimi dieci anni, ne hanno trovati, una volta la presidenza europea, un’altra volta la legge di bilancio o i ‘pieni poteri’ di Salvini o la pandemia o il ‘Recovery plan’ o il G20 o la necessità che si abbia una maggioranza europeista … e se non ci fosse … l’Italia potrebbe accettare che l’Europa metta il veto alle nostre scelte?).

Ma come? Ad aprile-maggio non voteremo in Calabria, a Milano, Roma, etc.? e in Israele non si fanno le elezioni, ripetutamente, con l’epidemia e con la guerra in corso, o in Portogallo, con una epidemia altrettanto galoppante? Non v’è dubbio che la situazione attuale è la conseguenza diretta degli errori che sono stati fatti dopo le elezioni del 2018 e la crisi del 2019: tutte le parti, al chiarimento elettorale, hanno preferito il solito pastrocchio sotto la protezione di qualche ‘alto’ ombrello, in un quadro bizantino di confusione tra arbitri e giocatori – prima tra 5S-Lega poi quello ancora più indecente tra 5S-LEU-PD-IV e ci consegnano nelle mani di ‘responsabili’ spiegandoci che è la democrazia parlamentare a volerlo!

Infine, non sono mancati gli appelli, anche del Papa, perché non si rompesse l’unità politica: ma di chi? Se avessimo avuto una qualche forma di unità nazionale, se ne capirebbe il senso, ma anche questo appello del Papa non è che un avallo di una formula politica di governo ad excludendum mentre si continua a delegittimare l’avversario!

Quanto fin qui detto riguarda solo una necessaria premessa su un governo assai discutibile. Passando al ‘Recovery Plan’, la domanda è: chi e che cosa salverà l’Italia da quella che potrebbe essere una occasione perduta, se non un colossale fallimento, per risolvere alcuni dei problemi storici del nostro Paese? Ebbene, dopo un mese di fibrillazioni, le soluzioni compromissorie offerte da Conte hanno ridotto quelle questioni a mere pecore da baratto, piuttosto svalutate.

Renzi ha definito la prima bozza del ‘Recovery plan’, come «raffazzonata e senz’anima»: ha ragione e non sono pochi – anche nel PD, sebbene si sia trattato solo di ammuine vista l’incrollabile fedeltà di questo partito al potere – a denunciarne la mancanza di strategia.

Non v’è dubbio che, per affrontare un problema così grande come quello del rilancio economico-sociale del nostro Paese dopo la batosta del covid – aggiuntasi alle altre della crisi del 2008, del debito pubblico fuori controllo, delle politiche sbagliate che si sono susseguite negli ultimi quaranta anni e ora riproposte sotto forma di risorgente statalismo – fosse necessaria ben altro che la grossolana ripartizione dei fondi prevista nel piano di Conte, in gran parte, un puzzle di vecchi progetti, molti dei quali congelati dai 5S, dal costo di ben 88 dei 127 miliardi dei prestiti europei.

Non era forse necessario che, già dal momento in cui questo progetto europeo ha cominciato a manifestarsi, il governo, il Parlamento, le Regioni, le forze sociali dovessero definire la strategia generale in relazione ai problemi, nuovi e vecchi, alla cui soluzione questo piano sarebbe utile? E non la dice lunga il fatto che in atto, e a prescindere dal ‘Recovery fund’, il governo non ha chiaro un prospetto dei bisogni del Paese e delle priorità tra i progetti? Il commissario Gentiloni si dice preoccupato dei ritardi. Noi sospettiamo che siano funzionale a una scelta del governo Conte di non fare discutere e metterci di fronte a fatti compiuti.

Lo prova la stessa legge di bilancio 2021 – presentata dal governo in Parlamento a pochi giorni dall’esercizio provvisorio (se l’avesse fatto Berlusconi ci saremmo messi tutti a cantare ‘Bella ciao’) – anch’essa senza ‘anima’, senza disegno, le cui poste Carlo Cottarelli ha definito «frutto di euforia da deficit», con la solita dispersione di risorse in ‘bonus’ e spese correnti, con previsioni di entrate tutte ipotetiche, forse destinate a non realizzarsi e ad aggravare così il debito dello stato (tant’è che, 10 gg. dopo l’approvazione del bilancio, si deve ricorre già ad un nuovo ‘scostamento’ di ben 25 mld.): insomma un pericoloso assalto alla diligenza questa volta partito dall’interno del governo stesso.

In effetti, la prima bozza di Conte ha mostrato una incapacità assoluta di misurarsi con la realtà, di stabilire un ordine di priorità, di affrontare i nodi centrali che abbiamo di fronte: per esempio in essa veniva destinato quasi il 9% alla parità di genere – e si vorrebbe sapere come verrebbero spesi questi 17 miliardi – mentre si insinuavano pure varie specie di bonus, di cui 4 mld. sotto forma di finanziamento del costoso ‘cashback’ spacciato come arma contro l’evasione fiscale, mentre alla sanità veniva destinato meno del 5%.

Se ora, nella seconda bozza – che ha continuato ad essere elaborata nelle segrete stanze del MEF senza alcun dibattito nazionale significativo – questo 5% e altre poste sono stati raddoppiati o fortemente modificati significa che, prima, gli ‘autori’ non avevano tenuto in considerazione il fabbisogno sia nella sanità, mentre i grandi strateghi grillini continuano a rifiutare il Mes, sia negli altri settori d’intervento. Si tratta comunque solo di grandi numeri e, fin qui, siamo tutti capaci: ma quando saranno definiti i progetti reali ed esecutivi? Faremo, in tempo entro il 2026?

La modernizzazione delle strutture economiche e sociali – dalla ‘rivoluzione’ green (a proposito: sono stati fatti i calcoli dei costi/benefici e degli effetti occupazionali? O andremo avanti con cassa integrazione e reddito di cittadinanza?) a quella digitale, nonché il problema delle disuguaglianze vecchie e nuove, tra cui, ma non solo, la parità di genere – sono certamente obiettivi da perseguire ma, altrettanto certamente, sono tutti da calibrare rispetto alla immagine istantanea delle condizioni generali del Paese oggi. Per esempio, sarà vero che lo strumento indispensabile per lo sviluppo sia l’infrastruttura digitale ma, se la ripartizione delle risorse per tale obiettivo non terrà conto delle posizioni di partenza delle sezioni del Paese, alcune delle quali fortemente deficitarie, certamente non produrrà gli effetti attesi: a diseguali non basta nemmeno che siano date quote eguali, deve essere data giustizia.

Lo stato italiano, dopo 160 anni dalla sua formazione, non affronta nemmeno questa volta il problema che esso ha creato con la sua stessa costituzione: abbiamo ricostruito la ‘nazione’ a spese della eguaglianza; abbiamo sviluppato l’economia e l’industria a spese dell’agricoltura; abbiamo sviluppato il Nord e trascurato il Sud.

Certo, si potrà obiettare che, al momento dell’unificazione nazionale, il Sud era arretrato rispetto a un Nord almeno in parte strutturalmente più capace di progresso economico-sociale. Tuttavia, senza essere per nulla antiunitari, si può affermare che questa arretratezza originaria del Sud non giustifica la successiva accentuazione del divario proprio perché, in gran parte se non in tutto, essa è stata il frutto dell’azione di questo stato unitario ‘centralista’: se il regno meridionale fosse rimasto indipendente, sarebbe anche rimasto responsabile della sua arretratezza ma, dal momento del suo ‘tramonto’, la responsabilità è passata tutta in capo al governo italiano che, senza le Regioni, per più di un secolo è stato l’unico decisore delle sorti dell’intero Paese.

Per non parlare delle politiche economico-finanziarie che hanno favorito lo sviluppo industriale del Nord, se solo si facesse il conto degl’investimenti statali in infrastrutture vedremmo quanto quelli destinati al Sud, nei 160 anni di vita unitaria, siano stati notevolmente inferiori rispetto a quelli destinati al Nord.

Nel secondo dopoguerra, il Sud ha avuto la sua parte, sia pure insufficiente, grazie alla lungimiranza di una classe dirigente, nazionale, che si pose l’obiettivo di affrontare, se non risolvere, la ‘questione meridionale’. La ‘Cassa per il Mezzogiorno’, pur con i suoi peccati, ha fatto molto e il Mezzogiorno ha guadagnato qualcosa sulla via dello sviluppo ma non è riuscita a sanare l’arretratezza delle sue infrastrutture rispetto a quelle del Nord: la grande espansione dell’intervento dello stato nell’economia e nella gestione della vita sociale non è servita a rimuovere il vecchio dualismo e, dopo la fine dell’intervento straordinario, nel Mezzogiorno si sono registrate la paralisi anche dell’intervento ordinario e l’obsolescenza delle infrastrutture essenziali. Il ‘Cristo si è fermato a Eboli’ è sempre attuale: non a caso, l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno.

Anche nella fase attuale si sta andando verso il solito squilibrio Nord-Sud. In termini quantitativi, la prima bozza del ‘Recovery plan’ prevedeva per le infrastrutture (rete ferroviaria ad Alta velocità, aeroporti, porti e, in minor misura, ammodernamento della rete stradale), la seguente ripartizione territoriale: al Nord circa 12,6 miliardi, al Centro-Sud 8,6. E la stessa proporzione valeva per tutte le altre aree d’intervento (digitalizzazione, ‘green transition’, etc.) previste dal ‘Next generation EU’.

Ora, le regioni del Nord rappresentano circa 1/3 della popolazione nazionale e 1/4 della superficie nazionale; eppure, in questa previsione di spesa ad esse verrebbe destinato più del 60% della quota destinata a infrastrutture. È evidente dunque non solo un nuovo squilibrio in favore del Nord ma anche la rinuncia a ogni criterio di ripartizione in rapporto al fabbisogno storico, vale a dire all’obiettivo di colmare il divario esistente tra le varie sezioni.

La classe politica meridionale, pur occupando qualche posizione di vertice nelle istituzioni nazionali, ha mostrato ancora una volta mancanza d’influenza e subordinazione agl’interessi egemonici, anzi incapacità di tutelare gl’interessi meridionali in un’ottica nazionale: non si è fin qui levata alcuna voce che chieda un riequilibrio in senso meridionalistico del ‘Recovery plan’; le forze politiche meridionali, di maggioranza e di opposizione, sempre sfasate rispetto al centro, svolgono un ruolo da “ascari”, marginale rispetto ai grandi processi evolutivi della politica e della società italiana ma, al tempo stesso, necessario e centrale per questa modalità di funzionamento delle leve della politica economica, della ‘filosofia’ di fondo che ha sorretto la politica italiana ancora orientata prima ad aumentare le potenzialità produttive del Nord e, dopo, a trasferire una quota del nuovo reddito al Sud.

Bisognerebbe rovesciare questa filosofia, identificando i punti di debolezza che hanno ostacolato lo sviluppo del Sud e i punti di forza che lo potrebbero promuovere; insomma, bisognerebbe destinare al Sud una quota maggiore degli investimenti: è questo il vero volano della ‘modernizzazione’ di tutto il Paese.

Se il ‘Recovery Plan’ è in cerca di un’anima, quale anima più pura se non quella, meta-economica, di armonizzazione ‘nazionale’ per la soluzione della ‘questione meridionale’?

Diversamente, da questo ‘Recovery plan’ non possiamo attenderci se non un aggravamento del divario Nord-Sud anche perché, quando si dovrà rimborsare il debito immenso già gravante sulla nostra economia e quello ingente che stiamo assumendo con l’Europa, all’ingiusta disparità nella distribuzione delle risorse si sommerà un’ingiusta eguaglianza: quella che, a parità di reddito, equiparerà i contribuenti del Sud a quelli del Nord.

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