Coronavirus: il governo, anziché cercare di prevenire l’epidemia, la rincorre e sembra privo di un’idea forte che ne orienti la strategia

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Coronavirus: il governo, anziché cercare di prevenire l’epidemia, la rincorre e sembra privo di un’idea forte che ne orienti la strategia. Si ricorderà che, dopo quella data e fino a quando il covid non fece la sua comparsa a Codogno e a Vo’ Euganeo, l’unica misura presa dal governo era stata quella di chiudere i voli diretti da e per la Cina

di Giuseppe Buttà* – Il nuovo ‘Cavour’ – che il destino ci ha mandato e che il suo ‘profeta’, Scalfari, ci ha rivelato – il ‘proattivo’ e telegenico premier Conte, in una delle sue predilette ‘informative’ televisive ci ha informato che, con il dpcm del 25 di ottobre, l’orario di apertura di ristoranti, bar, pizzerie, etc. sarebbe stato limitato alle ore 18; ciò al fine di decongestionare i mezzi di trasporto pubblici e, così, rallentare il contagio epidemico risalito paurosamente con l’ondata d’autunno: ‘scacco matto’ al virus. Infatti, stanco dopo la lunga giornata passata viaggiando su tram, metro e bus, il virus, affamato, troverà chiusi bar, ristoranti e pizzerie e, non potendosi nutrire, troverà anche la sua fine! Scusate il sarcasmo piuttosto macabro ma esso nasconde, dietro una smorfia somigliante a un sorriso, la delusione, per non dire la rabbia, che si prova davanti ai nuovi ‘cannoni di legno’ cui viene affidato il nostro Paese. Un così intelligente disegno non poteva che nascere dalla mano di questo governo, pronto a ricorrere alle mezze misure nel tentativo di salvare capra e cavoli (salute e economia), e che però sono ancora più dannose di quanto non sarebbero quelle più incisive, anche le più estreme e necessarie, per far fronte all’emergenza epidemica. Tuttavia, il problema non è solo quello di questo tipo di misure – cui siamo tutti disposti ad obbedire – che, visto il dilagare del virus, esse sono subito apparse insufficienti e tardive: infatti, dopo appena 10 giorni, si è dovuto correre ai ripari ed è arrivato, insieme con una nuova apparizione televisiva di Conte, il temuto nuovo ‘lockdown’, sia pure ‘modulato’ per regioni o, meglio, mimetizzato in un tripudio di colori con un crescendo verso il rosso.

No, il problema è un altro, ben più serio, non solo sul piano sanitario ma anche su quello socio-economico e politico. Ripercorrendo la vicenda dalla prima proclamazione dello stato di emergenza, cioè dal 31 gennaio scorso, fino ad oggi, possiamo scoprire un dato inconfutabile: il governo, anziché cercare di prevenire l’epidemia, la rincorre e sembra privo di un’idea forte che ne orienti la strategia.
Si ricorderà che, dopo quella data e fino a quando il covid non fece la sua comparsa a Codogno e a Vo’ Euganeo, l’unica misura presa dal governo era stata quella di chiudere i voli diretti da e per la Cina mentre respinse sdegnosamente la proposta di sottoporre a controllo gl’ingressi di passeggeri provenienti da quel paese per via indiretta, bollandola come ‘sovranista’. Probabilmente, anche una tale misura sarebbe stata inutile visto che, come abbiamo saputo dopo, il virus era arrivato in Italia molto tempo prima di scoprire che la Cina ne aveva fatto conoscenza guardandosi bene però dal comunicarlo al mondo; tuttavia ogni ulteriore misura, intrapresa in anticipo rispetto agli eventi, sarebbe stata allora un segnale della capacità del governo di mobilitazione e organizzazione delle forze e dei servizi necessari a tali controlli. In quella fase, invece, mancò il necessario sforzo organizzativo per l’approvvigionamento degli strumenti necessari – mascherine, ventilatori polmonari, etc. – e per la mobilitazione dei servizi sanitari prima che se ne manifestasse l’insufficienza – che, a quanto pare, perdura ancora oggi – e, dopo, si scatenò l’attacco alle Regioni tentando di rovesciare su di esse la responsabilità delle carenze della nostra struttura sanitaria o del mancato isolamento dei focolai epidemici come quelli di Alzano e Nembro.

Il che può pure essere vero ma il governo, se ne era consapevole, aveva tutti i mezzi per intervenire dettando alle Regioni la chiusura delle ‘zone rosse’ e finanziando l’organizzazione sanitaria da esso ritenuta necessaria: a tale scopo, l’art. 120 della Costituzione attribuisce espressamente al governo i ‘poteri’ per sostituirsi alle Regioni e assicurare l’incolumità, la sicurezza e i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, tra i quali vi è quello alla salute. In più c’è da dire che lo stato d’emergenza, proclamato e reiterato di mese in mese, conferisce al governo poteri anche eccezionali. E, però, a chi vuole profittare e approfittare della crisi attuale per una ‘reazione’ anti-autonomista, ai ‘neo-centralisti’, bisogna ricordare quali abissi, quali differenze vi sono tra le regioni italiane in quei servizi – dalla scuola alle infrastrutture materiali – affidati alle ‘cure’ del governo centrale: le ‘due– e forse tre – Italie’ sono figlie del centralismo. Se ci fosse bisogno di ulteriori prove di questa paternità, basterebbe citare il caso del commissario straordinario per la sanità in Calabria, nominato dal governo centrale e sottoposto alla sua autorità: ma, a quanto pare, il governo non ha vigilato sulla sua opera né gli ha dato le istruzioni e i mezzi per agire e, cosa ancora più grave, la programmazione anti-covid disposta da questo commissario nel giugno scorso deve ancora essere attuata dal governo centrale (ovvero dal commissario Arcuri): forse il governo intendeva che il piano anti-covid dovesse valere tra qualche anno? E che il governo non vigili e poco faccia lo dice anche il fatto che il commissariamento dura da ben 11 anni: perché, dunque, la sanità calabrese, totalmente sottratta alla competenza della Regione, non è stata messa in grado di funzionare al meglio? Non è forse il caso di restituirne la competenza ai calabresi? La presidente Santelli, poco prima di morire a metà ottobre e prima dell’affaire Conticelli-Zuccatelli-Strada, aveva scritto al premier Conte: “Siamo vittime da anni di un commissariamento che, improntato esclusivamente a logiche ragionieristiche, ha distrutto la Sanità calabrese. Le responsabilità politiche devono essere chiare e nette”.

Ora, col covid, siamo punto e a capo o, forse, peggio, a causa dell’inazione dello stesso governo che si è crogiolato sugli allori del ‘Next generation EU’ e di quelli di cui la von der Leyen e l’OMS l’hanno addobbato esaltandone la bravura nell’imporre il lockdown. Ma, in verità, il governo non ha fatto più di questo: chiudere tutto è stato facile, è bastato un dpcm. Ci è stato detto a maggio, quando si decise la fine del lockdown, che avremmo avuto una ‘seconda ondata’ epidemica in autunno e che avremmo dovuto imparare a convivere con il ‘virus’. Ma in che modo? Se fosse quello di ‘separati in casa’, già sarebbe un buon modo perché il virus starebbe in una stanza e noi nelle altre. Ma non è così: purtroppo noi e il virus abbiamo i ‘servizi’ in comune. Se si deve convivere con il virus – e ormai siamo tutti convinti che questo morbo ci farà compagnia per molto tempo così come ce la fecero il vaiolo, la malaria, la tubercolosi, la poliomielite, etc. – non si tratta di accettare il rischio fatalisticamente ma di disporci alla difesa seguendo le indicazioni dei medici: ci saremmo aspettati che, a questo punto, si facessero una legge quadro nazionale e i finanziamenti alle regioni per fronteggiare la recidiva dell’epidemia. Si doveva rafforzare per tempo il sistema sanitario (ospedaliero e territoriale) preparando le strutture e il personale sanitario (invece i medici e gl’infermieri volontari, frettolosamente arruolati in primavera, sono stati rispediti a casa altrettanto frettolosamente); il sistema dei trasporti (anche con il temporaneo ricorso ai mezzi dell’esercito e dei privati); il sistema produttivo (con progetti e finanziamenti ben definiti e organici); un piano per la protezione delle carceri e dei carcerati; infine, si doveva costruire la poderosa, e costosa, macchina per le vaccinazioni di massa, che sembra ancora di là da venire.

Naturalmente, i problemi della sanità territoriale, dei trasporti, delle carceri non da ora sono sul tavolo ma è almeno dal marzo scorso, da quando è scoppiata l’epidemia, che il potenziamento di questi sistemi è, o dovrebbe essere, all’ordine del giorno del governo e degli enti preposti: invece l’unico provvedimento di cui abbiamo notizia rispetto ai trasporti è stato quello di portare, per decreto, la capienza dei mezzi dal 50% all’80% dopo che si era constatato di non essere stati capaci di assicurarne la funzionalità con la misura inferiore: una figuraccia per il Comitato tecnico scientifico costretto a rimangiarsi le regole di distanziamento sui mezzi pubblici prima stabilite. E, in molte scuole, si aspettano ancora i famosi banchi monoposto. Allo stesso modo, per mettere in atto la prima delle famose tre T (tamponi, tracciamento, trattamento), non si sarebbe dovuto forse organizzare per tempo un sistema USCA e di ambulatori medici (attrezzati per tutte le urgenze oltre che per il covid) diffusi sul territorio – comune per comune – in modo da evitare le file che abbiamo visto in questi giorni e da disporre tempestivamente dei tamponi, dei referti e, quindi, degli interventi terapeutici anche domiciliari (cioè dell’ultima t) per non fare gravare tutto sugli ospedali? Sapendo che, se la malattia viene diagnosticata e curata tempestivamente, si può guarire nella stragrande maggioranza dei casi anche senza ricovero ospedaliero, avere fatto assai poco – per colpa del governo o delle regioni poco importa – è assai grave, per non dire delittuoso. Ci rendiamo conto delle difficoltà – finanziarie, logistiche, produttive – che si pongono: mancano i soldi, i mezzi, gli autisti, i medici, gl’infermieri, etc.. Tuttavia era solo questo che andava fatto e preparato ed è quello che è mancEato in termini di strategia, organizzazione, investimenti. Hanno abbondato invece i sussidi a pioggia (e a debito) ma con larghe zone siccitose e l’immensa quantità di debito straordinario che si sta accumulando sembra destinata alla sterilità e ad aggiungersi alla montagna di spesa improduttiva. Forse, se si fossero fatti gl’investimenti necessari nella sanità territoriale e nei trasporti, avremmo avuto meno bisogno di sussidi che, fra l’altro, sono del tutto insufficienti a ‘ristorare’ le perdite delle aziende, a dare il necessario per vivere a tutti coloro che perderanno il lavoro e a evitare l’impoverimento generale.

* Giuseppe Buttà è storico delle dottrine politiche, uno dei massimi studiosi italiani del pensiero politico americano. Già Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina.

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