‘Ndrangheta, Cafè de Paris: cade in appello accusa di mafia

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In forza della decisione dei giudici di seconda istanza sono stati assolti 14 imputati che si portavano dietro condanne per oltre 40 anni

C’è un po’ meno ‘Ndrangheta a Roma. I giudici della III sezione penale della corte d’appello della Capitale hanno fatto cadere l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso, e poi a cascata tutti i fatti reato contestati per intervenuta prescrizione, nell’ambito del processo sul ‘Café de Paris’, il tempio della Dolce Vita di via Veneto, che secondo i pubblici ministeri era finito in mano all’organizzazione criminale. In forza della decisione dei giudici di seconda istanza sono stati assolti 14 imputati che si portavano dietro condanne per oltre 40 anni. Quella della Corte d’appello – si aggiunge – è una sentenza che ribalta, di fatto, la decisione del collegio della VII sezione del tribunale, che nell’aprile 2014, aveva riconosciuto la responsabilità di quasi tutti quelli finiti sotto accusa e tratteggiato un quadro delle Cosche entrate in possesso a Roma di numerose attività commerciali come bar e ristoranti. E tra questi anche il famoso locale che negli anni Cinquanta e Sessanta vedeva spesso i flash dei paparazzi. In particolare le condanne più pesanti erano state inflitte a Vincenzo Alvaro, 7 anni, a sua moglie Grazia Palamara, 4 anni, a Damiano Villari (4 anni e 6 mesi). Per gli altri pene varie, dai 2 anni e 6 mesi ai 3 anni. Stavolta, in appello, la sentenza manda assolto non solo Alvaro, aiuto cuoco al ‘Cafè de Paris’ ed oggi barista al Tuscolano, ma anche tutti coloro che avrebbero fatto parte del sistema. La vicenda portò il 14 giugno 2011, nell’arresto, da parte dei carabinieri del Ros, di due persone ed in diciassette perquisizioni nei confronti di altrettanti indagati, tutti ritenuti affiliati a cosche ‘ndranghetiste di Sinopoli e Cosoleto, due Comuni non lontani da Reggio Calabria, con il compito di reinvestire i capitali illeciti acquistando attività commerciali preferibilmente in Centro. Questa sentenza – ricordano i difensori – arriva dopo che nel maggio 2019 già la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva disposto la restituzione di 102 beni, tra i quali proprio il Cafè de Paris. I sigilli erano stati messi nel 2009 – e poi confiscati – nell’ambito di un’inchiesta della Dda. Il sequestro era stato confermato sia in primo grado che in appello, dopo i ricorsi della difesa, ma la Cassazione annullò con rinvio l’ultima decisione. L’avvocato Fabrizio Gallo, che con i colleghi Matteo Cartolano e Tiziana Barillaro, ha difeso la famiglia Alvaro, ha detto: “Il caso ‘Cafè de Paris’ non era una operazione contro la ‘Ndrangheta, come hanno titolato i giornali di tutto il mondo. Oggi la Corte d’appello ha stabilito che i beni sequestrati, tra i quali il locale della Dolce Vita, non erano stati acquistati con soldi illeciti. L’assoluzione dell’aggravante mafiosa ha fatto crollare il resto per prescrizione”. Il penalista, insieme con il difensore di Villari l’avvocato Gianluca Tognozzi, ha annunciato il ricorso in Cassazione perché non soddisfatti della sentenza e del peso della prescrizione. Il ricorso alla Suprema corte secondo l’avvocato Gallo consentirà di entrare nel merito e si potrebbe arrivare ad un pieno riconoscimento degli imputati per tutti i fatti contestati.

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