Lettera all’umanità: riflessioni sul tema dell’odio e del razzismo

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M’appello ai volti candidi e gentili di coloro che ripongono la fiducia nell’umanità, di coloro capaci di osservare ed estrarre da ogni sguardo ciò che tende alla bontà assoluta

Di seguito il testo integrale della lettera scritta dal 18enne, Emanuele Carlo, il quale tenta di creare un manifesto che possa far riflettere i lettori sul tema dell’odio e del razzismo dopo i recenti e drammatici eventi relativi all’omicidio di George Floyd

Se questa è la strada che i nostri piedi, cinti d’odio alle caviglie, saranno costretti a percorrere, le tormentate fiamme dell’inferno giungeranno incontrollate, indomabili, dinnanzi a noi. Non vi sarà perdono, tantomeno penitenza effimera che i nostri corpi vuoti potranno scontare, cosicché l’animo si liberi dei peccati. M’intristisce cotanto veleno nelle sillabe pronunciate dai perfidi cuori, dalle menti aride, dalle gole secche. Abbiamo macchiato l’onore di fluidi scarlatti, soffocato la libertà, tarpato le ali alla bellezza; ci hanno reso ciechi ed estirpato le vene dagli arti, come fossimo di pesta, sacchi di nulla avvolti nel buio, contenitori senza contenuto, forme a priori senza esperienza, esperienze senza legge, senza diritto d’essere. Tra le angosciate risa isteriche di folle impazzite, grondanti di sudici delitti, è stata persa la verità, dilaniata dall’incontrollabile egoismo che attanaglia le viscere. Ci priveremo dei colori che adornano la natura, poiché il grigio urbano e borioso seppellirà le stagioni: né più mai verrà la primavera a rinfrescare l’inverno, non l’autunno ad addolcire l’estate. Offuscheremo gli orizzonti, così da rendere finiti gli abissi e impure le terre, flebili i venti e docili le tempeste. Strapperemo le pelli diverse e le ingurgiteremo, se servirà a rendere pura la razza. Tortureremo l’amore finché l’ultimo verace e trasparente sentimento non implorerà pietà al cospetto dell’apatia. Onoreremo i sacri altari iracondi, su cui i martiri hanno cessato di respirare.

Non faccio più parte di una comunità.

Le mie povere gambe, percorse da tremiti continui, giacciono sui ginocchi dolenti: è la solitudine che osservo intorno, attonito, sconvolto. Le mie pupille chiedono venia per gli orrori a cui hanno assistito, piangono la morte di un dio che mai fu prossimo ad accogliermi. Rimembro i tempi in cui i nivei lampioni illuminavano i foschi e ombrosi sentieri smarriti dal destino; con nostalgia guardo i cimeli dell’uguaglianza, le memorie perdute dell’assoluto romantico, le ridondanti curve barocche, l’armonioso rigorismo classico, archè del bello, pneuma della poesia.

L’ignoto è panacea per la metafisica..

Meravigliamoci dell’immensità dell’universo, consapevoli dell’infinita grandezza che milita entro l’aura nostra. Eccedendo di curiosità possiamo distruggere gli opprimenti schemi che tramutano estro in automa, così da scindere gli atomi beceri del materialismo. Il progresso ha ormai corrotto l’uomo, costretto ad un cinismo spietato, costretto a sgomitare, annientando i simili. Poiché beato e perfetto sarà chi lascerà le mani del creatore, vizioso colui che infrangerà i limiti dell’altrui libertà. M’appello, dunque, ai volti candidi e gentili di coloro che ripongono la fiducia nell’umanità, di coloro capaci di osservare ed estrarre da ogni sguardo ciò che tende alla bontà assoluta: prendetemi per braccio e conducetemi in questa vita, dacché perdetti, anni or sono, la mia tenace fortezza”.

Emanuele Carlo,

sul finire del viver monotono,

senza patria né meta.

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