I continui naufragi tra Scilla e Cariddi mantennero sempre viva la leggenda dei due mostri

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La leggenda contrappone Scilla, colei che “dilania” a Cariddi colui che “risucchia” e la loro collaborazione creò infatti il “mito” basato sulla pericolosità del posto

Le difficoltà e i pericoli, in cui incorrevano le fragili imbarcazioni attraversanti lo Stretto di Messina, esaltarono nel tempo la fantasia degli antichi e dato origine a mitiche leggende. Nei canti omerici è descritto un “mostro cinto di latranti cani, albergante in oscuro speco”, di nome Scilla che rappresentava i pericoli della “pietrosa”, cioè la scogliera sotto la rocca del castello. Il contrapposto Capo Peloro dalla parte siciliana verso il continente, delimita nettamente l’ingresso dello Stretto di Messina, “alle sue falde assorbe la temuta Cariddi il negro mare” e Virgilio, infatti, si ispira ancora ai miti omerici nel descrivere le turbolenze marine del posto. Le narrazioni dei pericoli nautici dovettero aver assunto tali proporzioni, da indurre il poeta a consigliare di evitare la traversata dello Stretto, “meglio è con largo indugio e lunga volta girar Pachino e la Tricacria tutta”. Ma nella nota terzina dantesca “come fa l’onda là sopra Cariddi che si frange con quella in cui s’intoppa cosi convien che qui la gente riddi”, invece, la poesia abbandona l’aspetto mitologico e dà una visione reale dei turbolenti movimenti marini che caratterizzano le acque dello Stretto di Messina, focalizzando l’attenzione ai suoi continui ribollimenti, alle sue repentine agitazioni e alle sue alternate fasi delle correnti opposte. L’acqua presenta una specie di bulicame, come se innumerevoli “bolle” sottomarine, distese sopra fasce trasversali, emergessero in superficie. Sui margini di queste zone, larghe macchie, di aspetto oleoso, indicano la presenza di vortici possenti, chiamati “refoli”, i quali danno improvvisi sbandamenti anche a grosse navi che ne rasentassero le parti esterne. Cariddi personifica i refoli e le agitazioni del mare che dominano Punta Peloro, dove pare che in realtà il mare sia assorbito e rigettato con immane violenza.

La leggenda contrappone Scilla, colei che “dilania” a Cariddi colui che “risucchia” e la loro collaborazione creò infatti il “mito” basato sulla pericolosità del posto. I grandi studi settecenteschi dello scienziato scillese, Padre Antonio Minasi che indicò addirittura “il percorso onde evitarsi la strage dei navigli”, produssero successivamente fervide discussioni politiche su questa dolorosa questione. La possibilità di assicurare alle imbarcazioni una protezione nautica con la costruzione dei porti nella parte calabrese e precisamente a Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Scilla, fu la conseguenza dei numerosi naufragi violenti che si susseguirono nella zona. A Scilla infatti, nel 1848 un bastimento genovese, carico di caffè e nel 1886 una nave scuola militare austriaca andarono a fracassarsi contro gli scogli sotto la rupe. Dopo la costruzione del porto a Scilla, che costò senza motivo l’abbattimento dei maestosi faraglioni, continuarono lo stesso i naufragi, infatti il 18 Gennaio 1931, un grosso veliero “Vesuvio” fu sbattuto nuovamente sugli scogli ormai ridimensionati, a causa del mare terribilmente tempestoso. L’equipaggio che abbandonò il veliero, si era posto su di una scialuppa e furono salvati da due ardimentosi giovani scillesi, Pietro Matrà e Giuseppe Romano, insigniti con una medaglia di marina al valore, dopo aver salvato ad uno a uno 12 marinai, legandosi con una corda. Questa nave conteneva grano che venne disperso lungo la costa e rappresentò una specie di manna dal cielo per i “schigghitani” che in un periodo di forte povertà, ottennero la farina dal prezioso cereale che venne impiegata per preparare pasta, pane e dolci per diversi mesi.

Enrico Pescatore

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