“Non è vero che la Calabria non ha speranza, anche qui i sogni si possono realizzare”: ecco una storia di un’emigrata “al contrario”

StrettoWeb

Voglio provare a spiegare a tutti che in Calabria si può vivere, e addirittura si può scegliere di vivere e di lavorare, senza scendere a compromessi

Basta. Noi calabresi, noi che in questa regione ci viviamo, siamo stufi di sentirci dire che “In Calabria non c’è nulla”, “E’ una regione che non offre futuro e prospettive”, “Come fate a stare qui? Non funziona niente”. Quest’ultima constatazione, in particolare, come tante altre analoghe, vi assicuro che ha l’effetto di una pugnalata, anche perché spesso arrivano da altri calabresi, quelli che sono emigrati, quelli che per un motivo o per un altro hanno scelto o sono stati costretti ad andarsene.

Qualche giorno fa, sulle pagine di StrettoWeb, abbiamo pubblicato una lettera ricevuta da un nostro lettore, un reggino costretto a trasferirsi fuori per poter lavorare e che, ogni volta che torna, soffre nel vedere i disservizi e le criticità di un territorio abbandonato a sé stesso.

Ma noi che siamo qui, noi che ci viviamo, noi che ogni giorno lavoriamo e organizziamo la nostra vita in questo posto che in molti definiscono desolato, come dovremmo reagire e cosa dovremmo fare? Quanta umiliazione e quanto senso di impotenza proviamo nel non poter controbattere con alcun argomento, visto che molto spesso queste considerazioni estreme sono incontestabili?

Ma lo sono davvero? O possiamo esprimere un punto di vista diverso? Noi vogliamo provarci, anzi io voglio provarci. Voglio provare a spiegare a tutti che qui si può vivere, e addirittura si può scegliere di vivere, senza scendere a compromessi, senza essere ‘Qualcuno’, senza senso di rassegnazione e con tanta voglia di fare, lavorare e crescere. Quella che segue è la mia storia, non una storia speciale, ma una storia che vale la pena conoscere, proprio per capire che la Calabria, se vogliamo, può essere vissuta pienamente.

Sono nata a Cosenza qualche decennio fa, pochi mesi dopo l’attentato a Giovanni Paolo II, quando Super Mario compariva per la prima volta nei videogiochi, quando l’IBM lanciava sul mercato il primo Personal Computer. Altri tempi, dunque, in cui si ponevano le basi per quello che sembrava l’irraggiungibile terzo millennio. Qualche anno dopo i miei genitori, papà operaio e mamma casalinga, decisero di provare a dare un futuro diverso a me e a mio fratello. Nel 1989, mentre veniva abbattuto il Muro di Berlino, io partivo alla volta del Piemonte: andavamo a Novara, città della quale fino a quel momento a malapena avevo letto il nome sul sussidiario della scuola elementare.

Ho studiato e sono cresciuta in quella città piemontese sentendomi, per i primi anni, una sorta di pesce fuor d’acqua: volevo tornare in quei luoghi da dove ero partita, lo volevo con tutta me stessa, fino all’adolescenza. Poi, tutto è cambiato. Avevo trovato la mia dimensione, studiavo, mi divertivo, non potevo chiedere di più. Ho fatto le stesse scelte di milioni di altre persone: mi sono laureata, ho iniziato a lavorare, mi sono sposata e dopo qualche anno è arrivato il primo figlio. Era il 2013 e pochi mesi prima della sua nascita insieme a mio marito ho preso una decisione drastica: saremmo tornati in Calabria. Lui, originario del reggino, sperava da tempo in un trasferimento che finalmente era arrivato. Il punto interrogativo era il mio: da neo mamma, da donna dinamica e da giornalista freelance andavo a vivere in un posto, un piccolo comune della provincia reggina, dove avrei dovuto ricominciare tutto daccapo, ricostruire tutta la mia vita, riformulare tutto il mio futuro. Io, che ero abituata a ‘fare’, da sempre: studiare, lavorare, conoscere, imparare. Cosa avrei fatto in un posto dal quale molti andavano via? Non lo sapevo, ma l’amore per la mia terra mi ha spinta a tentare, a provare.

Ho fatto il percorso inverso a quello consueto: ho lasciato i miei genitori al nord e sono tornata al sud, in Calabria, con la mia nuova famiglia. I primi due anni, con il bimbo piccolo, non sono stati semplici: senza un lavoro che mi facesse sentire realizzata e con una famiglia a cui pensare ero convinta che, stando qui, non ce l’avrei mai fatta. Lavorare mi sembrava una meta irraggiungibile. Mi chiedevo chi potesse assumere, in Calabria, una perfetta sconosciuta, una che non conosce i Tizio e i Caio di cui dicono ci sia bisogno per trovare lavoro a queste latitudini?

Poi, nel 2015, la svolta. Ero a Scilla, in spiaggia, un lunedì mattina di agosto. Il mare, l’aria, il panorama erano qualcosa di meraviglioso, mozzafiato. La spiaggia, invece, era una desolante distesa di rifiuti: bottiglie, bicchieri, cartacce e tanto altro. La mia indole da giornalista mi costrinse a fare una serie di foto con l’intenzione di pubblicare sui social. Poi, grazie al suggerimento di un amico, decisi di farle avere a StrettoWeb con una lettera in cui riportavo le mie considerazioni in merito allo spettacolo indecente che si presentava agli occhi dei turisti a Scilla. Le pubblicarono subito e il direttore mi contattò per un colloquio. Era agosto, come dicevo, e stavo per partire per le vacanze. Presi appuntamento il giorno stesso della partenza. Feci un colloquio al termine del quale il direttore mi chiese quando potevo cominciare. Gli dissi: “Purtroppo non prima di settembre, perché sto per partire”.

Da quel settembre 2015, fatta eccezione per una pausa di qualche mese dovuta alla nascita del mio secondo bimbo, la mia collaborazione è proseguita in un crescendo di esperienze, di professionalità e di soddisfazioni che, passatemi il paragone, io ho vissuto come una sorta di miracolo. Ho trovato, in questa redazione, una realtà che non mi aspettavo, viste le descrizioni e recensioni negative che chi abita qui da sempre mi faceva delle aziende e del mondo del lavoro in Calabria: “No Monia, qui puoi dimenticarti di lavorare, a meno che non conosci questo o quello”. Eppure la dinamicità, la voglia di lavorare e la voglia di crescere che ho trovato nei miei colleghi, e non solo, mi portano oggi a sostenere con fermezza che ho fatto bene a tornare, ho fatto bene a provarci, perché lo devo alla mia terra, lo devo a me stessa, lo devo a questa regione che ha solo bisogno di essere ‘spronata’ e criticata in maniera costruttiva e non di essere sempre derisa sottovalutata e relegata a parcheggio per tutti quelli che aspettano di essere chiamati a lavorare in un posto più o meno sperduto del Nord. La cultura del lavoro, lo spirito di sacrificio, il rispetto per sé stessi, la voglia di mettersi in gioco: basta tutto questo per potercela fare, anche qua. Come ha fatto il mio direttore dieci anni fa, mettendo le fondamenta a un progetto editoriale nato nel cuore del Sud, tra Reggio e Messina, e diventato vincente a livello nazionale; come ha fatto il mio editore che ha puntato tutto su quel progetto senza alcuna esitazione; come fanno i miei colleghi che ogni giorno lottano contro i pregiudizi di troppi lettori moderni che sempre più si auto considerano esperti in comunicazione e informazione.

Io ci ho creduto e quando ancora oggi mi chiedono “ma chi te l’ha fatta fare a tornare giù”, io rispondo con un sorriso sommesso che non vuole celare il mio orgoglio: “Ho fatto la scelta migliore, per me stessa e per la mia terra, perché merita di crescere, anche grazie al mio lavoro, e soprattutto merita di essere raccontata, che sia per centinaia di arresti per ‘ndrangheta o che sia per il suo mare, per i suoi prodotti tipici e per le sue eccellenze”.

Le realtà negative in Calabria ci sono, negarlo sarebbe intellettualmente disonesto, ma credo ci siano in ogni realtà del mondo e in ogni caso non devono diventare un alibi per giustificare i propri fallimenti: con l’impegno e la voglia di farcela è possibile vivere, bene, anche qui.

Andare via è una scelta da rispettare, soprattutto se a partire sono giovani ambiziosi che vogliono raggiungere determinati traguardi professionali di livello internazionale che qui non potrebbero mai riscontrare. Sono le figure che emigrano con entusiasmo e spirito positivo da qualsiasi città di provincia di qualsiasi Paese del mondo, e che spesso e volentieri rimangono più legati e affezionati alla loro terra. Sono quelli che vanno via senza scuse e alibi, consapevoli che la realizzazione dei loro sogni passa per le tre o quattro grandi megalopoli mondiali e che si sarebbero voluti spostare da qualsiasi posto in cui sarebbero nati.

Ovviamente meritano rispetto anche gli altri, quelli che partono lagnandosi, quelli che vanno fuori a fare lavori umili che potrebbero fare anche in Calabria, ma non si sa perché qui i lavori umili non li farebbero mai. Vanno in Germania a lavare i piatti o in Australia a pitturare pareti, certamente guadagnando di più rispetto a Serra San Bruno o Petilia Policastro, giusto per dirne due a caso, ma affrontando un costo della vita che li costringerà ad una fin troppo frequente marginalità sociale e a pesanti ristrettezze economiche: a volte devono essere nonni e genitori, da qui, ad aiutarli e mantenerli. Che senso ha, dunque? Ma ognuno, si sa, è libero di fare ciò che crede. La riflessione sorge però nel momento in cui si sentono anche in diritto di pontificare sulla loro terra d’origine, con astio e risentimento. Lo fanno con la Calabria, ma lo farebbero con qualsiasi posto in cui sarebbero potuti nascere, spinti semplicemente da insoddisfazione personale.

Dunque, questa è la mia storia. Nulla di speciale, agli occhi degli altri, ma tante soddisfazioni dal mio punto di vista. E soprattutto tanto orgoglio che non posso e non voglio tenere nascosto: tutti sbandierano quanto ci sia di negativo in questa terra e io invece voglio sottolineare tutto ciò che vedo di positivo, perché è su quello che dobbiamo puntare se vogliamo fare davvero qualcosa per la Calabria e per noi stessi.

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