Ponte sullo Stretto, i nodi vengono al pettine: non farlo è un disastro, esposto in Procura per “danno erariale” di centinaia di milioni di euro [DETTAGLI]

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Ponte sullo Stretto di Messina, presentato un esposto-segnalazione alla Procura per danni erariali

Un esposto-segnalazione per promuovere ogni opportuna iniziativa volta ad accertare e perseguire i danni erariali derivanti dalla mancata realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. È il documento, inviato alle Procure del Lazio, Sicilia e Calabria, che porta le firme dei deputati nazionali di Forza Italia Matilde Siracusano e Nino Germanà, del senatore di Forza Italia Marco Siclari e dei sindaci di Messina e Villa San Giovanni Cateno De Luca e Giovanni Siclari.  Scopo dell’esposto quello di “sollecitare e coadiuvare le Procure contabili intestate rispetto all’attività di accertamento dei danni erariali provocati dal dispendio (passato, presente e futuro) di ingenti risorse pubbliche per far fronte alla realizzazione di un’opera mai nata: il Ponte sullo Stretto di Messina”.

Ecco di seguito il testo integrale del documento:

Ponte sullo Stretto: “l’opera bloccata con una serie d’interventi omissivi e commissivi”

“L’immagine dell’aborto, purtroppo, è quella che meglio descrive le vicende dell’infrastruttura. Dai primi anni 2000 in poi, è stato avviato un lungo, defatigante e costoso iter, giunto in stadio assai avanzato: è stata costituita la società veicolo pubblico per gestire l’opera (la Stretto di Messina S.p.a.); sono stati selezionati all’esito di apposite gare il contraente generale (Eurolink S.p.a.), il Project  Management  Consultant (Parsons Transportation Group Inc.); sono stati individuati il monitore ambientale e il broker; è stato realizzato il progetto definitivo; sono state realizzate o avviate alcune opere secondarie e strumentali (a cominciare dalla Variante di Cannitello); sono stati posti i vincoli sui terreni interessati dal complesso infrastrutturale. Tutto questo è costato tempo e denaro alla collettività: sennonché, proprio in dirittura d’arrivo, l’opera è stata bloccata con una serie d’interventi omissivi e commissivi a dir poco rocamboleschi, rendendo completamente inutili, e dunque illegittimi, sia gli investimenti effettuati negli ultimi decenni, sia le spese ingiustificate che ancora oggi – e chissà per quanto – vengono addossate all’erario.

Ad aggravare la vicenda, poi, è che “l’aborto” del Ponte è stato scientemente congegnato, nonostante la diffusa consapevolezza della sua vitale e strategica importanza non solo per la Sicilia e la Calabria, ma per l’intero Mezzogiorno e per tutto il Paese.

È quasi superfluo ricordare che la realizzazione del collegamento tra la maggiore isola del Mediterraneo e la terraferma avrebbe permesso di riallacciare al continente il 10% della popolazione italiana residente in Sicilia, affrancando l’area dalla marginalizzazione economica e sociale di cui soffre, per riportarla al centro delle dinamiche nazionali.  L’opera, come rilevato dai Governi e dagli amministratori che se ne erano fatti promotori, avrebbe assicurato un effetto di leva economica estremamente rilevante: ciò sia nel breve e medio periodo, in termini di posti di lavoro; ma anche nel medio-lungo periodo, aumentando l’attrattività dell’area per gli investitori, propiziando il rafforzamento della rete stradale e ferroviaria da e verso la zona, rendendo più rapidi e meno costosi i traffici di persone e merci, attraendo parte dei flussi di beni in transito via mare dall’Africa e dall’Asia al Nord Europa, rafforzando la già spiccata vocazione turistica siciliana e calabrese, riducendo l’inquinamento prodotto dalle imbarcazioni nello Stretto a beneficio dell’ambiente e della biodiversità, innescando meccanismi virtuosi a livello di mobilità economica e sociale utili anche in prospettiva demografica e culturale”.

Ponte sullo Stretto: alcuni dati su spese e ricadute occupazionali

“Per limitarsi ad alcuni dati esemplificativi: il valore della potenziale spesa per le materie prime, la prefabbricazione e il trasporto della carpenteria metallica del Ponte sospeso in uno studio allegato al progetto si valutava in circa 1,3 miliardi di euro; per quanto riguarda le ricadute occupazionali (e senza voler calcolare l’indotto potenzialmente generato dai lavori), si stimava una spesa per la sola manodopera locale di circa 900 milioni di euro (considerando gli altri investimenti per opere strettamente funzionali alla realizzazione del Ponte che non fanno parte dell’affidamento di Stretto di Messina), per una presenza media mensile di personale pari a circa 4.300 unità (3.500 di personale diretto e circa 880 di personale indiretto: contabili, addetti al personale di cantiere, amministrativi in generale, ecc.), con punte di massima fino a 6.500 unità, per la maggior parte attinte dall’offerta locale; l’aumento del gettito erariale generato dalla nuova struttura era stato stimato in 4,5 miliardi di euro.

Come è evidente, però, il problema su cui si richiama l’attenzione di codesta Procura non è tanto quello dei benefici mancati, quanto piuttosto quello delle risorse inutilmente dilapidate: tutti gli esborsi, a fronte della mancata realizzazione dell’opera a un passo dalla meta, si ritrovano privi di causa e inutili.  

Porre l’attenzione sui costi inutilmente sostenuti per l’opera si rende ancor più necessario considerato che negli ultimi anni si è affermata una concezione aziendalistica della spesa pubblica che si sofferma particolarmente sul calcolo di efficienza degli investimenti, spesso portando ad esigere il dirottamento delle risorse impegnate nelle grandi opere su interventi nel medesimo settore più ridotti, ma capillari. In questa prospettiva, pur dove si dimostrasse – dati alla mano – che la realizzazione del Ponte non fosse in astratto “l’ottimo degli ottimi”, è certo che il suo completamento sarebbe stato molto più funzionale rispetto al perseguimento dei numerosi interessi pubblici in gioco, piuttosto che spendere le risorse in opere e attività propedeutiche e strumentali, del tutto inutili senza il loro naturale “coronamento”. Queste stesse risorse, se la parte pubblica non si fosse attardata in una serie di comportamenti colposi e dolosi, ben avrebbero potuto trovare impiego nel miglioramento della disastrosa condizione in cui versano infrastrutture e trasporti delle regioni Sicilia e Calabria”

Quello che è irragionevole, prima ancora che illegittimo, è proprio questo: essersi fermati a metà del guado, optando per la costruzione del Ponte anziché per altri interventi, investendo enormi risorse nelle attività preparatorie, per poi abbandonare tutto a pochi passi dal traguardo.  In questa situazione, gli abitanti delle aree coinvolte, e chiunque nelle stesse abbia degli interessi, non potranno evitare di sentirsi doppiamente beffati: in primo luogo, gli obiettivi strategici che dovevano essere conseguiti tramite la costruzione del ponte non sono stati raggiunti, con ricadute economiche e sociali drammatiche; in secondo luogo, questo “scherzo” è costato moltissimi milioni di euro, che se fossero stati impiegati in altri interventi avrebbero prodotto sensibili miglioramenti della condizione in cui versano i territori.

Ciò premesso, in questa sede non si intende certo portare all’attenzione della Procura una difficile, quanto poco utile, quantificazione economica, in termini di danno, delle potenzialità e delle opportunità perse a causa della mancata realizzazione del Ponte. Non si vogliono denunciare, infatti, tutte quelle conseguenze negative, pur censurabili, che non sono rapportabili alla categoria del danno erariale, in quanto conseguenze non immediate, e solo stimate, dei fatti qui denunciati.

Ci si limiterà, invece, ad individuare quelle poste che, ragionevolmente, possono essere considerate esborsi erariali privi di una giustificazione, essendosi nel frattempo rinunciato a costruire l’opera che configurava l’obiettivo di quelle spese, senza la quale, pertanto, a fronte dei costi sostenuti non è stato conseguito alcun risultato tangibile”.

Ponte sullo Stretto: costi e conseguenze patrimoniali

“I costi di cui si sostanziano le voci di danno oggetto della presente denuncia sono principalmente riconducibili, come si dirà,

i) al mantenimento della struttura del concessionario Stretto di Messina S.p.A. che non ha ancora concluso la fase di liquidazione, nonostante sia spirato il termine previsto dalla legge, e sia cessata ogni attività;

ii) ai pagamenti disposti nei confronti delle società appaltatrici per le prestazioni rese;

iii) alle conseguenze patrimoniali del recesso della parte pubblica dai contratti stipulati;

iv) alla minore utilità di opere già realizzate (v. Variante di Cannitello) strumentali al corretto funzionamento dell’opera principale, mai realizzata;

v) alle spese legali sostenute e sostenende per resistere alle (legittime) contestazioni avanzate in sede giudiziale dalle società appaltatrici;

vi) agli indennizzi erogati ed erogandi per l’inutile apposizione e l’inutile reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio dei terreni e degli immobili ricadenti nel cantiere dell’opera.

Questa denuncia la si deve alla ferma volontà dei segnalanti di tutelare la dignità di popolazioni dalla cultura millenaria, per le quali sembra non esservi più posto nelle strategie politiche ed economiche del Paese. La realizzazione del Ponte avrebbe messo a disposizione della Sicilia e della Calabria, ma anche del Meridione intero, una risorsa infrastrutturale fondamentale per rivitalizzarne il tessuto economico e sociale, e cominciare a riallinearsi, con le proprie forze, alle realtà italiane più virtuose.  Infatti, questi territori hanno bisogno di parità nelle condizioni di partenza, sulla cui base costruire con le nostre forze un domani migliore, e non di “risultati già pronti” di sapore assistenzialista.

Sulla presente vicenda, molti hanno avanzato censure e critiche a livello politico; si tratta, oggi, di fare un passo in più, denunciando i fatti a codeste Procure, perché le scelte che sono state compiute dalla parte pubblica non sono solo inopportune dal punto di vista politico, ma anche illegittime dal punto di vista giuridico. Innanzi a ciò, è necessario che, nell’interesse delle popolazioni locali, ma anche di tutti i contribuenti italiani, siano azionati i rimedi previsti dall’ordinamento, per denunciare questo come esempio paradigmatico di mala gestio in materia infrastrutturale, da non ripetere mai più in danno dei cittadini”.

I fatti

“Per poter efficacemente svolgere le dovute osservazioni sui costi riconnessi all’opera e sulle responsabilità dei soggetti che ne hanno impedito la realizzazione, è utile ripercorrere brevemente le vicende che hanno portato alla situazione attuale, pur nella consapevolezza che l’orizzonte temporale degli eventi che possono essere sottoposti al giudizio della Corte dei conti è ben più limitato (dato il termine di prescrizione quinquennale dell’azione erariale)”.

La costituzione di Stretto di Messina S.p.A. e la concessione della progettazione e della costruzione

La realizzazione del collegamento mediante la costruzione di un ponte sospeso sullo Stretto di  Messina, più volte evocata in passato ed anche concretamente valutata già nel XIX secolo, è  stata  prevista  dalla  legge  n.  1158 del  1971, che ha affidato  la concessione  dello  studio, della progettazione e della costruzione, nonché dell’esercizio del solo collegamento viario ad una società a totale capitale pubblico. In attuazione della citata legge n. 1158, in data 11.6.1981, è stata costituita la società Stretto di  Messina  S.p.A.,  inizialmente  partecipata  al 51% dall’IRI e per il restante 49% dall’Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato, dall’Anas, dalle regioni Sicilia e Calabria e da altre  amministrazioni  ed enti  pubblici.  Nel 1985,  la  concessione  attribuita  per  legge è stata assentita con decreto  ministeriale alla Stretto di Messina spa., individuando  quali soggetti concedenti le Aziende autonome Anas e Ferrovie dello Stato.

A quasi un decennio dalla concessione, il 23 dicembre 1992, la società Stretto di Messina approvava il progetto di massima di un ponte a campata unica da 3.300 metri per l’attraversamento dello stretto, progetto che nella sua impostazione di fondo ricalca il progetto definitivo approvato dalla società nel 2011. Tale progetto riceveva il parere tecnico positivo delle controllanti, veniva trasmesso nel 1997 al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il quale rendeva a sua volta parere positivo. Il costo complessivo previsto è l’equivalente di 3,3 miliardi di euro.

Seguiva allora una fase di ulteriore studio sotto la spinta del CIPE, che sottoponeva il progetto ad un esame tecnico e finanziario svolto da “advisors” individuati con procedure di evidenza pubblica bandite dal Ministero dei Lavori Pubblici di concerto con il Ministero del Tesoro. Negli anni 2000 e 2001 gli advisors consegnavano i loro rapporti finali, contenenti anche talune prescrizioni in vista della progettazione preliminare dell’opera.

Il 6 dicembre il Parlamento guidato dal centrodestra approvava la legge obiettivo Berlusconi-Lunardi (promulgata il 21 dicembre, legge delega n. 443), e lo stesso 21 dicembre 2001 il Cipe (delibera 121/2001) approvava il Programma delle infrastrutture strategiche (Pis): tra queste figurava espressamente il Ponte sullo Stretto, indicato con un costo di 4.957,9 milioni di euro (i 3.300 milioni del progetto 1992 aggiornati).

Nel corso del 2002 la Società elaborava il progetto preliminare “avanzato” dell’opera che il 16 gennaio 2003, corredato da uno studio di impatto ambientale predisposto da un soggetto esterno individuato mediante gara internazionale (Rti guidato da Systra SA – e composto da Bonifica S.p.a., Systra-Sotecni S.p.a. e AST Sistemi S.r.l.) e dagli elaborati per la localizzazione urbanistica, veniva trasmesso da Stretto di Messina S.p.a. ai Ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e per i Beni e le Attività Culturali, oltre che alla Regione Calabria ed alla Regione Sicilia.

Così, con delibera n. 66 dell’1.8.2003, il CIPE approvava il progetto preliminare dell’Opera e, in data 30.12.2003, il Ministero delle Infrastrutture (che nel frattempo era diventato soggetto concedente) e la Stretto di Messina s.p.a. stipulavano una convenzione per la regolamentazione dei reciproci rapporti e per il Piano finanziario dell’Opera stessa”.

Le gare internazionali per la progettazione definitiva ed esecutiva e la realizzazione del Ponte e per l’affidamento dei servizi  di  Project  Management

“Sicchè, nell’aprile 2004, la Stretto di Messina S.p.A. (nella cui compagine societaria era subentrata  la  Fintecna  s.p.a.,  quale  successore  dell’IRI)  bandiva due  gare:  la  prima  per l’affidamento ad un Contraente generale della progettazione definitiva ed esecutiva  e  della realizzazione del Ponte e dei relativi collegamenti stradali e ferroviari; la seconda per l’affidamento dei  servizi  di  Project  Management  Consulting  al fine di espletare le attività di  verifica  e  controllo sulle  prestazioni  da rendere  dal Contraente  generale  sia  nella  fase  di  progettazione  che  di realizzazione del Ponte.

La prima gara era quindi aggiudicata in favore dell’Ati costituita tra la capogruppo mandataria Impregilo S.p.A. e le mandanti Sacyr SA., Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A., Cooperativa Muratori  &  Cementisti – CMC  di  Ravenna  soc.coop  a  r.l., Ishikawajima – Harima   Heavy Industries   Co.Ltd.   e   Argo Costruzioni Infrastrutture   S.c.p.a. che, successivamente, davano vita ad una società di progetto, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 190 del 2002, denominata Eurolink S.c.p.a., subentrata quindi nei rapporti facenti capo all’Ati. La seconda gara è stata aggiudicata in favore della società statunitense Parsons Transportation Group Inc. Erano poi bandite altre due gare: una per la selezione di un Monitore Ambientale, cui far svolgere per conto della Società Stretto di Messina l’attività di monitoraggio ambientale, territoriale e sociale per la fase ante operam, di costruzione e di esercizio (post operam) del Ponte sullo Stretto; l’altra per l’individuazione di un Broker Assicurativo, cui affidare i servizi di consulenza e intermediazione assicurativa per la copertura dei rischi relativi alla realizzazione dell’opera. Stretto di Messina s.p.a., quindi, procedeva a stipulare i diversi contratti tra loro collegati: in particolare, in data 16.1.2006 era concluso il contratto di affidamento dei servizi di Project Management Consulting con la Parsons  e  in  data  27.3.2006  il  contratto  di  affidamento a Contraente  Generale con la Eurolink Scpa.

In quest’ultimo, aggiudicato alla cifra di 3.879 milioni di euro, il valore della progettazione definitiva era fissato a 66 milioni, quello della progettazione esecutiva a 56 milioni. Era previsto che solo una parte di questi valori sarebbe stata accreditata da parte di Stretto di Messina al contraente a titolo di indennizzo nel caso di una sospensione da parte del CIPE del progetto entro l’anno. Fino all’approvazione definitiva del progetto definitivo da parte del CIPE, non era prevista alcuna “penale” (ossia risarcimento forfettizzato), ma solo il pagamento delle «prestazioni correttamente eseguite, nonché il rimborso delle eventuali spese sostenute purché giustificate e ritenute congrue dalla Stretto di Messina». Dopo l’apertura dei cantieri, in caso di interruzione dei lavori per cause non addebitabili al contraente generale, Stretto di Messina avrebbe dovuto pagare il 10% sulla parte non ancora realizzata e fino ai quattro quinti del contratto. La penale massima che sarebbe stata addebitata alla parte pubblica era quindi di 300 milioni”.

Le vicende successive

Di qui in poi la storia del Ponte sullo Stretto si caratterizza per gli indirizzi ondivaghi provenienti dagli esponenti dei vari Governi che si sono avvicendati i quali da un lato non hanno impedito che i lavori oggetto dei contratti aggiudicati venissero ad esecuzione, dall’altro hanno più volte ritirato il proprio appoggio alla realizzazione del progetto -mettendo in discussione gli impegni presi (pur confermati almeno sino al 2012) con le controparti contrattuali, ma soprattutto con i cittadini-, senza, tuttavia, attivare prontamente gli strumenti ordinariamente previsti per il recesso della parte pubblica dal contratto, piuttosto definanziando (o meglio, dissanguando) l’opera attraverso riduzioni dell’impegno di risorse pubbliche assunto. Tale atteggiamento perseguiva l’obiettivo di breve periodo di congelare la decisione sulle sorti dell’opera e, al contempo, di non pagare le penali previste dai contratti; tutto ciò nella dolosa consapevolezza che, prima o poi, qualche indennizzo si sarebbe dovuto erogare e che, nel frattempo, l’avanzamento dei lavori di progettazione e l’operatività stessa della società concessionaria avrebbero generato ulteriori costi a carico dell’erario.

Già con il DL. n.  262  del  2006,  poi  convertito  nella  Legge  n.  286  del  2006,  le  somme  originariamente  destinate alla sottoscrizione dell’aumento di capitale della Stretto di Messina (strumentale al pagamento dei lavori resi) sono state destinate dal Governo Prodi a diverse utilizzazioni (ossia lavori di potenziamento delle infrastrutture e trasporti delle regioni, mai realizzati a causa del successivo disimpegno delle stesse risorse), con contestuale comunicazione agli aggiudicatari. Nel frattempo, tuttavia, pur essendo maturata l’intenzione di rinunciare all’opera, non venivano attivati gli strumenti contrattuali per esercitare il recesso che avrebbe comportato, all’epoca, un esborso di risorse piuttosto contenuto e, soprattutto, avrebbe impedito il consolidarsi di un affidamento in capo agli aggiudicatari ed ai cittadini.

Successivamente il CIPE, con delibera n. 91 del 30 settembre 2008, prendeva atto dell’imminente scadenza (5 novembre 2008) del termine quinquennale di efficacia del vincolo preordinato all’esproprio -derivante dalla delibera n. 66/2003- e dell’impossibilità di approvare entro tale temine il progetto definitivo dell’opera. Deliberava quindi che fosse reiterato il vincolo preordinato all’esproprio sugli immobili interessati dalla realizzazione del Ponte.

A seguito di un ulteriore cambio di orientamento politico emerso da nuove elezioni, vinte dal centro-destra, il Ponte sullo Stretto è stata nuovamente considerata un’opera di carattere prioritario, venendo reinserita tra le infrastrutture strategiche previste nel documento di programmazione Economico-finanziaria per il triennio 2009-2011. In particolare, il D.L. n.78 del 2009, convertito nella Legge n. 102 del 2009, ha disposto l’assegnazione alla società Stretto di Messina di un contributo di 1.300 milioni di euro (poi mai effettivamente percepito).

Con delibera n. 77 del 31 luglio 2009, il CIPE attribuiva alla società Stretto di Messina la responsabilità della realizzazione della “variante di Cannitello” (ossia un raddoppio di un tratto di linea in Calabria utile a collocare la sede del ponte, ancora interessato da un affidamento di lavori per emendarne l’impatto ambientale fortemente negativo), in modo da assicurarne la coerenza con gli altri interventi da eseguire nel territorio calabrese. La previsione di spesa era di 26 milioni di euro, già in parte finanziati (con delibera CIPE n. 83/2006) nell’ambito del contratto di programma con RFI 2007-2011.

Di conseguenza, in data 25.9.2009 la Stretto di Messina e la Eurolink stipulavano un Atto Aggiuntivo, integrativo del contratto stipulato in data 27.3.2006, in base al quale sono state definite le modalità di riavvio delle attività di realizzazione dell’Opera e si è proceduto all’affidamento della Variante di Cannitello. In tale accordo, le parti convenivano le modalità di aggiornamento del prezzo contrattuale, nonché la rinuncia alle riserve medio tempore formulate dal Contraente Generale.

Inoltre, all’art. 5.2, convenivano che, in caso di mancata approvazione del Progetto Definitivo entro 540 giorni dalla sua presentazione da parte di Eurolink, le  parti  si  sarebbero  incontrate  per  rivedere  le  condizioni  contrattuali  e,  in  caso  di  mancato accordo entro 30 giorni, ad entrambe sarebbe spettato il diritto di recedere dal contratto, con riconoscimento in ogni caso alla Eurolink di un indennizzo, da calcolarsi secondo i criteri ivi indicati (ossia il pagamento di tutte le prestazioni rese e la corresponsione del 10% dei 4/5 del valore contrattuale dell’opera). Analogamente,  anche  la  Parsons  stipulava  (in  data  20.5.2009  e  poi  confermato  in  data 25.9.2009)  un  atto  integrativo  per  disciplinare  la  ripresa  delle  attività,  rinunciando  al  rimborso  di parte delle spese sino a quel momento sostenute.

Così, anche grazie allo stanziamento, durante il 2009 ed il 2010, di apposite risorse per finanziare un aumento di capitale della concessionaria e far fronte alle spese, venivano riavviate le attività per la realizzazione dell’Opera. Tra maggio e giugno 2010 si svolgevano le indagini di campo, l’aggiornamento dello Studio di Impatto Ambientale completo della prevista verifica di ottemperanza alle prescrizioni rilasciate dal CIPE nel 2003 e della analisi di incidenza relativa all’allargamento delle aree ZPS avvenuto nel 2005, il Monitoraggio Ambientale-Territoriale-Sociale e le prove aerodinamiche nelle gallerie del vento di Milano, Copenaghen e Ottawa.

In data 20.12.2010, la Eurolink  consegnava il  Progetto  definitivo  alla  Stretto  di  Messina s.p.a., avviando un complesso  iter  di  verifica  dello  stesso,  con  notevole  allungamento  dei  tempi  contrattuali. Con vari atti integrativi, preso  atto  del  protrarsi  delle  attività  di  verifica  del  Progetto Definitivo, veniva quindi fissata convenzionalmente al 12.4.2011 la data di consegna del  Progetto definitivo ai fini della decorrenza degli ulteriori termini previsti dall’art. 5.2 dell’accordo aggiuntivo del 25.9.2009.

In data 29.7.2011, il Consiglio di amministrazione della Stretto di Messina approvava, infine, il Progetto definitivo dell’Opera, dando avvio al processo approvativo presso le Amministrazioni. Il costo complessivo del Ponte e delle opere connesse saliva da 6.350 a 8.550 milioni di euro, di cui il 60% da reperire sul mercato.

Tuttavia, progressivamente dal 2012, lo Stato italiano iniziava a disimpegnare gli investimenti   inizialmente destinati alla realizzazione del Ponte, senza che intervenisse la approvazione del Progetto definitivo, disvelando così le reali intenzioni del nuovo Governo insediatosi. Il CIPE, con la delibera 6 del 20 gennaio 2012, che rimodula le assegnazioni a valere sui fondi ex Fas per il 2009-2011 e riprogramma le somme non ancora impegnate, revocava tutti i fondi assegnati al Ponte sullo Stretto e non ancora spesi (sottraendo circa 2 miliardi di euro). Nel frattempo, venivano richieste integrazioni di carattere ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente, circostanza che ha permesso alla concessionaria, successivamente, di affermare in via del tutto pretestuosa che il progetto consegnatole -e da essa stessa approvato dopo un’ampia e approfondita valutazione- non fosse completo, per cui non poteva considerarsi spirato il termine di 540 giorni, previsto dagli accordi contrattuali, il cui vano decorso avrebbe dato luogo all’obbligo di corrispondere le penali.

Sicchè,  in  data  4.10.2012  la  Eurolink,  ritenendo  che  fosse  decorso  il giorno precedente il termine  di  540 giorni per l’approvazione del Progetto definitivo da  parte  del  CIPE, chiedeva la revisione delle condizioni contrattuali alla concessionaria .Successivamente, in  data 3.11.2012, essendo decorsi 30 giorni dalla richiesta e non essendovi stata alcuna revisione contrattuale, la Eurolink dichiarava di voler  recedere dal Contratto ai sensi dell’art. 5.2 dell’Accordo aggiuntivo del 2009″.

Il colpo di scure: il D.L. n. 187 del 2012 e l’art. 34-decies della legge n. 221 del 2012

Il giorno prima di tale dichiarazione della Eurolink (in data 2.11.2012, con tempismo sorprendente), il Governo p.t. adottava un  decreto -legge (il D.L.  n. 187 del 2012),  motivato  sulla scorta della “straordinaria necessità ed urgenza di garantire, in considerazione  dell’attuale  stato  di  tensione  nei  mercati  finanziari internazionali, la verifica, a tutela della finanza pubblica, della sostenibilità del piano economico finanziario del collegamento stabile viario e ferroviario tra Sicilia e Continente”. Tale finalità era solamente dichiarata, dato che non vi era ancora stato un tentativo di reperire sul mercato le risorse private necessarie; ed anzi, si teneva in quei giorni un incontro tra la società concessionaria, la China Investment Corporation (Cic), fondo sovrano di Pechino e la China communication and construction company (Cccc), che si erano rese disponibili a finanziare l’opera. La norma, in sostanza, celava (poco e male) la volontà di bloccare la realizzazione del ponte, per resistenze non meglio precisate e incomprensibili giunti a questo punto, cercando contemporaneamente di non pagare quanto pattuito nel 2009 a fronte del recesso dal contratto.

A dimostrazione di quanto sopra, vi è la circostanza che già nel testo della legge di stabilità per il 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), come proposto ad ottobre da parte del Governo (vedi pdl C5534bis, art. 8, comma 8), fossero stanziati, a valere sul Fondo per lo sviluppo e la coesione, 300 milioni per il pagamento delle penali per la non realizzazione del progetto (che lo stanziamento fosse riservato al pagamento dei costi del recesso si evince dalla relazione illustrativa all’originario disegno di legge C5534, presentato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze p.t. -Grilli- in cui si legge cheIl comma 8 assegna al Fondo per lo sviluppo e la coesione una dotazione finanziaria aggiuntiva di 300 milioni di euro per l’anno 2013 per fare fronte agli oneri derivanti dalla mancata realizzazione di interventi per i quali sussistano titoli giuridici perfezionati alla data di entrata in vigore della presente legge (in particolare, si tratta delle penalità contrattuali per la mancata realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina)”; in sede di approvazione della legge lo stanziamento è stato ridotto a 250 mln).

Il citato decreto-legge si è rivelato un perfetto escamotage per venire meno all’impegno preso, sia verso le popolazioni locali, sia verso gli operatori economici. Si è così rinunciato a perseguire le finalità pubbliche sottese alla realizzazione del Ponte, per il raggiungimento delle quali erano state già impiegate ingenti risorse, e si è provato al contempo a non pagare agli appaltatori le penali pattuite, pur nella consapevolezza da un lato che le stesse sarebbero state sostituite da un indennizzo calcolato diversamente (il cui criterio di calcolo è contenuto nel D.L.), senz’altro di gran lunga minore, ma in ogni caso cospicuo; dall’altro lato, che la prosecuzione della gestione (anche liquidatoria) di Stretto di Messina s.p.a. e delle pretese risarcitorie generate dall’azzardata mossa legislativa avrebbe generato ulteriori ed inutili costi a carico dell’erario. Insomma, ci si è infilati in un tunnel, sapendo bene cosa si perdeva (il Ponte e i soldi investiti), e sperando di guadagnare qualcosa, nel gioco del tutto nebuloso fra indennizzi ricalcolati e spese legali.

Il decreto – a decorrere dalla sua entrata in vigore (2.11.2012)- ha sospeso, infatti, tutti gli  effetti  dei  contratti  stipulati  dalla  Stretto  di  Messina  s.pa. con  il  Contraente  generale  e  gli  altri affidatari, introducendo una procedura articolata in più fasi per la  ricerca di un nuovo finanziamento dell’Opera, disponendo che la Stretto di Messina ed il Contraente generale avrebbero dovuto stipulare un apposito atto aggiuntivo, recettivo delle modifiche contrattuali operate in via unilaterale mediante una vera e propria legge provvedimento. In caso di mancata stipulazione di tale atto aggiuntivo entro il termine dell’1.3.2013, dovevano ritenersi caducati, con effetto dalla data di entrata in vigore del decreto (2.11.2012), tutti gli atti relativi ai rapporti di concessione, nonché le convenzioni ed ogni altro rapporto contrattuale stipulato dalla società concessionaria. Nonostante siano state avviate iniziative tra le parti per addivenire ad un testo condiviso, non essendo pervenuta la sottoscrizione dello stesso entro il termine previsto,  la Stretto di Messina s.p.a. – in  data  2.3.2013 – comunicava alla Eurolink e al Project Management Consultant che i contratti di affidamento dovevano considerarsi caducati, in ragione delle previsioni del decreto-legge medesimo. Il 7 febbraio 2013, in ogni caso, il Contraente generale (mostrando così di versare in buona fede) richiedeva una proroga del termine del 1° marzo per la stipula dell’atto aggiuntivo e significative modifiche circa l’indennizzo e l’adeguamento del contratto, ribadendo anche la disponibilità a sospendere, ma non a ritirare, le iniziative giudiziarie medio tempore poste in essere e a non avanzare ulteriori recriminazioni.  La richiesta non riceveva alcun riscontro favorevole, così confermando ancora una volta le reali intenzioni sottese all’adozione del D.L., ossia pervenire ad una caducazione dei contratti ed intavolare una (sanguinosa, dispendiosa) battaglia giudiziaria per rivendicare la legittimità dell’operato della parte pubblica.

In  attuazione  delle  previsioni  del citato D.L., poi trasfuso nell’art. 34-decies della Legge n. 221 del 2012 (con procedura di conversione che ha fatto sollevare non pochi dubbi di costituzionalità), la società Stretto di Messina è stata posta in liquidazione (d.P.C.M. del 15 aprile 2013 che contestualmente nominava il commissario liquidatore), visto il mancato raggiungimento dell’accordo aggiuntivo e la conseguente caducazione dei contratti nonché della concessione tra la Società ed i Ministeri concedenti. Le operazioni di liquidazione si sarebbero dovute concludere ad un anno dalla nomina del liquidatore, ossia il 15 aprile 2014, mentre, a distanza di oltre 5 anni, sono ancora in corso”.

Gli sviluppi giudiziari tra General Contractor, Project Management Consultant, Società concessionaria, Ministeri concedenti e Presidenza del Consiglio

Anche gli sviluppi successivi alla conversione del citato D.L. ed alla messa in liquidazione della concessionaria sono noti a codesta procura, in quanto sono stati oggetto di una serie di deliberazioni della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti. In ogni caso giova richiamare quanto avvenuto tra il 2013 ed oggi, dato che proprio in questo lasso di anni si è andata ad aggravare l’offesa alle risorse erariali oggetto del presente esposto, soprattutto a causa della (invero prevedibile) proliferazione del contenzioso che ha portato a sostenere spese di giudizio la cui consistenza non è nota, ma che senz’altro risultano ingenti (visto che l’incarico di resistere in giudizio è stato conferito dalla società ex concessionaria a professionisti esterni).

Paradossale è, poi, il fatto che la stessa concessionaria, che si ricorda essere società in house (da considerarsi, dunque, alla stregua di una longa manus dell’amministrazione), ha adito le vie giudiziali citando in giudizio i Ministeri concedenti e la Presidenza del Consiglio dei Ministri per vedersi riconoscere, come si dirà, un indennizzo che, alla conclusione della liquidazione, comunque retrocederà agli enti partecipanti (!) Altro aspetto che la dice lunga sull’atteggiamento con cui è stata gestita la vicenda, sprezzante a dir poco per le risorse pubbliche e le comunità interessate.

Eurolink ed Impregilo (in qualità di mandataria dell’ATI aggiudicatario della commessa), ricorrevano sia al giudice ordinario (Tribunale Ordinario di Roma, sezione specializzata imprese; atto di citazione notificato il 28 febbraio 2013) che al TAR (in via meramente cautelativa ed impugnando tutti gli atti adottati dalla concessionaria in attuazione delle previsioni di legge), con l’obiettivo di far riconoscere la validità del recesso esercitato, previa disapplicazione del citato D.L. (ritenuto inopponibile al contraente generale), e la spettanza degli indennizzi di cui all’art. 5.2 dell’atto aggiuntivo-transattivo del 2009; oppure, in via subordinata, per far accertare e dichiarare la risoluzione del contratto ed i conseguenti risarcimenti per fatto e colpa della committente Stretto di Messina s.p.a. e, in generale, della parte pubblica unitariamente considerata). Analoga controversia era promossa, successivamente, sempre dinanzi al Tribunale ordinario di Roma, sezione specializzata in materia di imprese, dalla Parsons Transportation Group Inc., aggiudicataria dell’appalto per i servizi di Project Management Consulting in relazione alla progettazione definitiva ed esecutiva, nonché alla realizzazione dell’opera.

La Corte di Cassazione, in seguito a regolamento di giurisdizione proposto a causa della contemporanea pendenza della lite presso i due plessi giurisdizionali, stabiliva la competenza del giudice ordinario con sentenza a Sezioni Unite n. 2144/2018. La causa era quindi riassunta innanzi al G.O. che definiva il giudizio con sentenza parziale (n. 22386/2018) di rigetto delle domande avanzate dal contraente generale e rimetteva alla Corte Costituzionale, con ordinanza assunta nella camera di consiglio del 16.10.2018, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del DL n. 187 del 2.11.2012 (poi trasfuso nell’art. 34 decies della legge n. 221/2012) nella parte in cui, nell’ipotesi di caducazione dei contratti, il comma 8 richiama gli effetti di cui al comma 3, in base al quale “a definitiva e completa tacitazione di ogni diritto e pretesa, gli effetti della caducazione dei vincoli contrattuali comportano esclusivamente il riconoscimento di un indennizzo costituito dal pagamento delle prestazioni progettuali contrattualmente previste e direttamente eseguite e dal pagamento di una ulteriore somma pari al 10 per cento dell’importo predetto”, perché contrastante con gli artt. 3 e 97 della Costituzione: infatti, la speciale regolamentazione degli effetti della caducazione dei contratti disposta con il decreto menzionato appare irragionevole e non proporzionata laddove si consideri che la disciplina generale del recesso della parte pubblica dai contratti d’appalto prevede, a fronte di una situazione sostanziale analoga, una quantificazione del ristoro economico di gran lunga superiore. In altri termini, ad avviso del giudice rimettente, seppure la Costituzione non tutela in via assoluta il legittimo affidamento dei privati (dovendo lo stesso essere bilanciato con i contrapposti interessi pubblici), la stessa impone, tuttavia, che la legge-provvedimento lesiva di tale affidamento sia suffragata da interessi pubblici prevalenti e che, comunque, la compressione dell’affidamento sia operata nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità e senza operare arbitrarie discriminazioni. Per l’effetto, dunque, era sospesa la decisione sulle domande subordinate avanzate dal PMC.

Nel frattempo, ed è qui che la vicenda assume colorazioni grottesche, Stretto di Messina richiedeva agli enti ex concedenti la corresponsione di un indennizzo, inviando una nota (14 novembre 2013) sul ‘riepilogo costi progetto dell’opera’ e indicando l’importo dell’investimento principale per 312.355.662 euro; alla somma, la società, in accordo con ANAS -azionista di maggioranza- aggiungeva un ulteriore 10 per cento sulle prestazioni rese (che ammonterebbero a circa 31 milioni), decurtando il totale delle quote di contributi già erogate (17.840.568 euro): l’ammontare rivendicato dalla ex concessionaria in liquidazione, pertanto risulta di 325.750.660 euro, oltre l’eventuale risarcimento, come ben si evince anche dai bilanci intermedi di liquidazione.

A ciò aggiungasi che per sostenere le ragioni creditorie menzionate -ragionevolmente avversate dai Ministeri delle Infrastrutture e dell’Economia, nonché dalla Presidenza del Consiglio (i quali, tuttavia, non si sono mai attivati concretamente per la chiusura della liquidazione, passandosi vicendevolmente “la patata bollente”) e, come si dirà nel prosieguo, dalla stessa Corte dei conti – Stretto di Messina s.p.a. e, per essa, ANAS, richiedevano numerosi pareri giuridici -pro utilitate- (in data 27 febbraio 2013, 9 maggio 2014, 12 maggio 2014, 15 maggio 2014) “provenienti da massimi esperti della materia amministrativa e commerciale”, tutti resi, come ovvio, a titolo oneroso.

La richiesta di indennizzo era anche dedotta, come domanda riconvenzionale, nella causa intavolata dal contraente generale e riunita a quella avanzata dalla Parsons.

La prosecuzione oltre i termini della gestione liquidatoria di Stretto di Messina ed il contenzioso da essa avanzato contro i Ministeri e la Presidenza del Consiglio sono stati oggetto delle deliberazioni della sezione di controllo della Corte dei conti nn. 17/2016, 14/2017 e 23/2018, nelle quali -come meglio si dirà sub § 4.1 e § 4.2- si è duramente stigmatizzata la condotta delle parti pubbliche e si è posta l’attenzione sui rilevanti costi che il conflitto giudiziale sta continuando a generare, nonché sul prevedibile, quanto inaccettabile, prolungamento dei tempi di liquidazione: si legge, tra l’altro, nelle relazioni menzionate che “la mancata estinzione determina un ulteriore onere finanziario per il mantenimento in vita della concessionaria, che la legge indicava – appunto – in un solo anno” e che “resta da constatare […] l’assenza, allo stato, di possibili margini di intesa fra i soggetti della vicenda circa le misure necessarie o utili ad intraprendere un percorso conclusivo e soddisfacente per tutti, nel rispetto degli interessi pubblici coinvolti e anche allo scopo di impedire danni a carico dell’erario”.

I Costi

Riepilogate le circostanze fattuali entro le quali si inserisce il presente esposto (seppur, per ragioni di sinteticità, senza la dovizia di dettagli richiesta dalla portata della vicenda), occorre adesso soffermarsi sulla corretta quantificazione dei costi che l’erario ha dovuto e ancora dovrà sopportare a fronte della mancata realizzazione dell’opera. Tali costi, quindi, rappresentano voci di spesa del tutto inutili, nel senso etimologico del termine: alle stesse, infatti, non corrisponde alcuna utilità per la collettività, configurandosi purtroppo un caso plateale di sperpero delle pubbliche risorse.  

I principali costi, spese ed esborsi che si individuano sono i seguenti:

  1. costi relativi al mantenimento della struttura del concessionario Stretto di Messina S.p.A. che non ha ancora concluso la fase di liquidazione;
  2. pagamenti disposti nei confronti delle società appaltatrici per le prestazioni rese;

Conseguenze patrimoniali del recesso della parte pubblica dai contratti di appalto stipulati

  1. la minore utilità di opere già realizzate (v. Variante di Cannitello) strumentali al corretto funzionamento dell’opera principale, mai realizzata;
  2. spese legali sostenute e sostenende per resistere alle contestazioni avanzate in sede giudiziale dalle società appaltatrici e per recuperare l’indennizzo asseritamente dovuto alla ex concessionaria;
  3. indennizzi erogati ed erogandi per l’inutile apposizione e l’inutile reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio dei terreni e degli immobili ricadenti nel cantiere dell’opera”.

I costi della società Stretto di Messina in liquidazione

Foto StrettoWeb / Salvatore Dato

“Come premesso, una delle voci di spesa che in maniera più lampante possono rappresentare un serio e ingiustificato pregiudizio all’erario è quella inerente ai costi di funzionamento dell’ex concessionaria, che avrebbe dovuto terminare la fase di liquidazione entro il termine del 15 aprile 2014. Anche considerando il termine in parola non perentorio, non si giustifica affatto, alla luce dei principi di cui all’art. 97 Cost., la perdurante operatività della società, che continua a sopravvivere per accanimento terapeutico a spese dei contribuenti. Tanto più che, per stessa ammissione dell’ex concessionaria e dell’ANAS, la chiusura della liquidazione avverrà solo ad esaurimento del contenzioso che vede coinvolta la società: considerando che il primo grado di giudizio è solo parzialmente concluso, che è stata rimessa una questione di legittimità alla Corte Costituzionale e che, prevedibilmente, le parti soccombenti vorranno esperire tutti i mezzi di gravame possibili (compreso il ricorso alla CEDU se del caso), la liquidazione non sarà conclusa prima di molti anni (rischiando seriamente che la stessa si protragga oltre il decennio dal termine stabilito per legge).

Peraltro, non è azzardato prevedere un fiorire di ulteriore contenzioso nei confronti dell’ex concessionaria, con relativa lievitazione delle spese legali, derivante dalle richieste di indennizzo delle parti private sulle quali grava la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio.

Più in particolare, se i costi capitalizzati della società Stretto di Messina alla data di inizio delle attività di liquidazione (1981-2013) ammontavano 312.355.000 euro (poco più di 312 milioni, circa la somma chiesta a titolo di indennizzo agli enti concedenti), la società dal 2014 ad oggi ha continuato ad impiegare circa 2 milioni di euro annui per far fronte alle varie spese (tra cui non solo quelle relative all’attività giudiziale, affidata a professionisti esterni, ma anche quelle connesse ai vari adempimenti di legge, ad esempio in materia di revisione legale dei conti, prevenzione della corruzione, trasparenza, d.lgs. n. 231 sulla responsabilità amministrativa delle società in sede penale ecc…).

Nello specifico, i “costi di produzione” – che, come si dirà, si traducono in danno erariale – come si evince dai bilanci della società e dalle relazioni della sezione di controllo, sono stati:

  • 772.267 euro per il 2014 (cui andrebbe scomputata una quota relativa al primo quadrimestre del 2014, dato che la liquidazione sarebbe dovuta terminare il 15.4.2014);
  • 856.322 euro per il 2015 (di cui 1.638.241 contabilizzate come spese per servizi);
  • 531.483 euro per il 2016 (di cui 1.315.519 per servizi);
  • 250.561 euro per il 2017;
  • Totale 2014-2017:410.639 euro

Non è ancora noto il “costo della società” per il 2018. Difficilmente, tuttavia, lo stesso sarà inferiore al milione di euro.

Foto di Renzo Pellicano

Non è nota agli scriventi l’entità dell’esborso per le parcelle dei professionisti esterni incaricati di seguire i contenziosi aperti. Si evince dalle relazioni della sezione di controllo (del. 14/2017 G), tuttavia, che per il solo 2016 lo stesso è stato di 288.000 euro, tanto da indurre il Ministero delle infrastrutture, in sede di approvazione del bilancio ANAS 2016, ad esortare la stessa a “ridurre ulteriormente i costi di gestione della società e di procedere ad un’ulteriore ed approfondita valutazione dei riflessi di un’eventuale liquidazione della società sul contenzioso in atto”. ANAS, pertanto, ha chiesto (Nota n. 402243 del 2 agosto 2017) a Stretto di Messina di “valutare se rinegoziare le convenzioni in essere con i professionisti esterni ovvero di adottare le misure ritenute più utili ed opportune ad ottemperare ai rilievi ricevuti”. La società in liquidazione ha comunicato che per le attività legali svolte dai professionisti incaricati, si è provveduto, “nel maggio 2017, a ridefinire i termini dell’incarico di patrocinio generale, prevedendo una sostanziale riduzione (circa il 40 per cento)”, mentre sono in corso verifiche per valutare “la rinegoziazione degli onorari per la difesa nei giudizi” principali (nota n. 187 del 9 ottobre 2017), così implicitamente ammettendo il costo esorbitante delle spese legali.

In ogni caso, quantomeno le spese sostenute (anche da ANAS) per richiedere ai ministeri concedenti e alla Presidenza del Consiglio l’indennizzo asseritamente dovuto per la caducazione della concessione concretano un sicuro danno erariale: rappresentano, infatti, una inutile duplicazione di costi, dato che quei 312 milioni spesi rappresentavano in ogni caso esborsi pubblici, come affermato nelle relazioni della sezione di controllo (si legge nella del. n. 23/2018 che la richiesta di indennizzo in esame “risulta contraria ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo, tenuto anche conto che quanto eventualmente ottenuto in sede giudiziaria ritornerebbe agli azionisti dopo l’estinzione della società”).

La progressiva riduzione delle spese generali, peraltro, è stata giudicata quale atto sicuramente dovuto, ma non sufficiente a fuoriuscire dalla situazione chiaramente contrastante con i principi di cui all’art. 97 Cost. e con quello di buon andamento in particolare”.

Pagamenti disposti nei confronti delle società appaltatrici per le prestazioni rese

Altra voce di spesa che viene in rilievo (e concreta, in tutto o in parte, un danno erariale, come sarà precisato) è quella sostenuta – e ancora da sostenere – per il pagamento delle prestazioni rese dalle società aggiudicatarie dei contratti pubblici per la realizzazione dell’opera.

Sebbene non sia agevole ricostruire l’effettivo esborso sostenuto e, più a monte, il valore delle prestazioni correttamente eseguite dagli affidatari, può evincersi dalle previsioni contrattuali, dai bilanci della società Stretto di Messina s.p.a., dalle relazioni della Corte dei conti e dalle sentenze del Tribunale, che:

  • Eurolink reclama il pagamento del saldo delle prestazioni rese e non interamente retribuite pari ad € 830.543 per le attività relative al progetto definitivo ed € 2.101.145 per i lavori della Variante di Cannitello, il che lascia intendere che una parte è già stata pagata: si ricava dalla relazione allegata al bilancio 2017 di Stretto di Messina che il totale delle prestazioni eseguite da Eurolink ammonta a circa 85 milioni di euro, per cui può ragionevolmente desumersi che sono state retribuite prestazioni per circa 64 milioni di euro. Tali somme sono già annoverabili, sussistendone gli altri presupposti, tra i danni erariali in quanto realizzano una diminuzione del patrimonio pubblico.
  • Parsons ha svolto prestazioni per 573.779 euro, cui si aggiungono 4.837.308 di prestazioni non contrattualizzate e ciononostante eseguite. Questo dato si ricava dal fatto che la società, in via giudiziale, quantifica l’ulteriore indennizzo previsto dall’art. 34 decies, pari al 10% delle prestazioni eseguite, in 1.957.378 euro. Delle prestazioni effettuate una buona parte è stata pagata (e non se ne conoscono le tempistiche), come si ricava dal fatto che in sede giudiziale la Parsons richiede il pagamento di 2.102.980 euro a titolo di saldo per le prestazioni contrattualmente previste ed in concreto eseguite, per cui ne ha già percepiti 17.470.799 (cui si sommano i corrispettivi erogati per le prestazioni non contrattualizzate, per i quali si può solo sapere che si richiede il versamento di un saldo di 4.837.308 euro);
  • Sono maturati corrispettivi per 564.656 euro nei confronti del Monitore Ambientale “ATI-Fenice”. Gli scriventi non sono riusciti a ricostruire le modalità e le tempistiche di pagamento dei corrispettivi maturati

In definitiva, l’esborso concretamente sostenuto è stato superiore agli 80 milioni di euro

stretto di messinaL’impossibilità di conoscere esattamente quale parte dei corrispettivi maturati dagli affidatari sia già stata erogata ed in quali tempistiche dipende dal fatto che non è possibile accedere ad atti strettamente riservati, in quanto svolti nell’esercizio della funzione imprenditoriale, come le fatture e i mandati di pagamento, i SAL ecc… Su questo potrà senz’altro far luce l’azione di codesta Procura.

Nondimeno, è certo che quanto ancora non corrisposto per le prestazioni correttamente eseguite dovrà comunque essere erogato in futuro e che quanto già corrisposto rappresenta una possibile voce di danno erariale, quale esborso patrimoniale dell’amministrazione certo ed attuale. Si precisa, infatti, che la debenza dell’intera cifra (corrispondente alle prestazioni correttamente eseguite) non è messa in discussione sia che si considerino i termini dell’accordo transattivo del 2009, sia che si considerino i criteri di liquidazione dell’indennizzo introdotti dal D.L. citato e trasfusi nell’art. 34-decies della l. n. 221/2012: a prescindere da questo aspetto, infatti, le cifra in questione sono interamente e pacificamente dovute”.

Conseguenze patrimoniali del recesso della parte pubblica dai contratti di appalto stipulati

“Oltre alle cifre di cui al precedente paragrafo, le società aggiudicatarie reclamano una serie di somme a titolo di risarcimento/indennizzo. Tali somme, allo stato, non rappresentano un esborso attuale per l’erario, tuttavia sono pur sempre un danno che si produrrà nel breve periodo e che merita, pertanto, di essere monitorato sin dalla sua genesi. L’ammontare varia notevolmente a seconda dell’esito che avranno le vicende giudiziarie. Se, infatti, al termine dei giudizi, esauriti tutti i mezzi di gravame contemplati dall’ordinamento, fossero accolte le domande principali di Eurolink e Parsons, l’esborso sarebbe davvero notevole, mentre se dovesse ritenersi validamente esercitato il recesso della parte pubblica, nonostante il mezzo utilizzato e la modifica delle condizioni contrattuali del tutto unilaterale ed arbitraria, la cifra sarebbe senz’altro minore, ma pur sempre consistente.

Più nello specifico:

  • Eurolink chiede circa 700 milioni di euro, oltre rivalutazione ed interessi. Tale somma corrisponde al 10% dei 4/5 del valore contrattuale dell’opera (che secondo gli atti aggiuntivi del 2011, ammontava a circa 8,5 miliardi di euro), al saldo delle prestazioni effettuate e al pagamento delle spese di smobilizzo societario. In via subordinata la società chiede che le sia corrisposto un risarcimento in seguito alla risoluzione del contratto per fatto e colpa della parte pubblica del valore di circa 600 milioni di euro (550 circa a titolo di lucro cessante e 50 circa a titolo di danno emergente). Qualora risultasse, in via definitiva, del tutto valido il recesso effettuato con le modalità eccentriche descritte, Eurolink avrebbe diritto al saldo delle prestazioni rese, ossia circa 24 milioni, e ad un ulteriore indennizzo di 8,5 milioni (10% delle prestazioni eseguite), per un totale di oltre 32 milioni di euro.
  • La Parsons chiede circa 10 milioni, corrispondenti al 10% dei 4/5 del valore delle prestazioni contrattuali, pari a circa 120 milioni di euro (così si evince dall’ordinanza di rimessione, anche se il PMC deduce che il valore contrattuale al momento della domanda è pari a circa 226 milioni, dal che conseguirebbe un indennizzo di 19 milioni). Si prospettano poi, ulteriori due possibilità: qualora la Corte costituzionale ritenga non illegittimo l’art. 34-decies della l. n. 221/2012, alla Parsons spetteranno poco meno di 2 milioni a titolo di indennizzo (10% delle prestazioni rese, pari a 19,5 milioni); invece, là dove il giudice delle leggi accogliesse la questione di legittimità costituzionale, sarebbe applicabile alla fattispecie la disciplina del recesso nei contratti pubblici di cui all’allora art. 134 d.lgs. n. 163/2006 (oggi art. 109, d.lgs. n. 50/2016), o quella di cui all’art. 1671 c.c. In tal caso alla Parsons spetterebbero tra gli 8 (diminuendo il valore delle prestazioni ineseguite di 1/5, secondo la regola di elaborazione giurisprudenziale del “quinto d’obbligo”, recepita nel comma 2 dell’art. 109 del nuovo codice degli appalti) e i 10 milioni di euro.
  • È stato già corrisposto, da parte del MIT, un indennizzo all’ATI-Fenice, Monitore Ambientale, il quale ha esperito il procedimento di cui all’art. 34 decies citato e, dopo aver agito con decreto ingiuntivo, nel 2015 ha ottenuto 156.465 euro.

Il totale delle somme dovute a titolo di indennizzo oscilla, quindi, tra un massimo di oltre 700 milioni di euro ed un minimo di oltre 35 milioni di euro. In entrambi i casi, una parte dell’indennizzo spettante alle aggiudicatarie, pari a circa 1,2 milioni, è già stata erogata.

La minore utilità di opere già realizzate  strumentali al corretto funzionamento dell’opera principale

Altri esborsi che devono essere considerati nell’ottica di rinvenire i possibili danni erariali generati dalla vicenda, sono quelli sostenuti per la realizzazione della c.d. Variante di Cannitello. Come rimarcato, la Variante, consistente in un raddoppio della linea ferroviaria tra Cannitello e Villa San Giovanni, utile per “far spazio” al cantiere del Ponte e per assicurarne una migliore accessibilità al traffico su rotaia, è stata aggiudicata al Contraente Generale Eurolink nel 2009, dopo che le funzioni di committente erano transitate da RFI a Stretto di Messina nel medesimo anno. Nel contratto tra Stretto di Messina s.p.a. ed Eurolink del 2009 è esclusa la progettazione esecutiva, già svolta da RFI: la prestazione è limitata alla realizzazione dell’opera ed è aggiudicata per l’importo, al netto del ribasso, di € 13.771.737,73.

Nella Delibera CIPE n. 83/2006, di approvazione del progetto definitivo della Variante, i costi dovevano essere contenuti entro i 19 milioni di euro a valere sui fondi dell’art. 1, co. 78, della l. n. 266/2005.  All’atto del trasferimento della committenza a Stretto di Messina s.p.a., invece, il costo dell’opera stimato si attestava attorno ai 26 milioni di euro.  Il CIPE, nella seduta del 17 dicembre 2009, contestualmente all’assegnazione di fondi preordinati all’aumento di capitale di Stretto di Messina s.p.a., imputa alla concessionaria 7 milioni di euro per il finanziamento della variante di Cannitello.

Il 23 dicembre vengono ufficialmente iniziati i lavori che sarebbero dovuti durare un totale di 18 mesi ma che, allo stato, non possono considerarsi ancora del tutto conclusi (nonostante nella rilevazione AVCP dell’ottobre 2013 i lavori risultino conclusi il 30.10.2012), data la necessità di provvedere ad interventi di mascheramento e mitigazione ambientale di quelle che, non senza ragione, è stato additato quale “ecomostro”: la caducazione dei contratti relativi all’opera principale, infatti, ha segnato la battuta d’arresto anche per i lavori della variante, che corre lungo un tratto di costa dalla rinomata bellezza (costa viola), la quale è rimasta “nuda”, ossia con la struttura di copertura in cemento armato completamente esposta.

Tanto che il CIPE, con delibera n. 28/2014, preso atto della modifica del soggetto aggiudicatore della “variante di Cannitello” (che risulta ora essere RFI in luogo di Stretto di Messina s.p.a. nel frattempo posta in liquidazione), assegna l’importo di 7 milioni di euro (gli stessi di cui alla delibera n. 6/2012), per la realizzazione del mascheramento della galleria artificiale e la riqualificazione del lungomare di Cannitello. Allo stato, tuttavia, l’iter per l’approvazione del nuovo contratto non risulta ancora concluso. 

In ogni caso, i lavori eseguiti hanno fatto maturare ad Eurolink corrispettivi per 15.952.845,79 euro. Risultano avanzate riserve per 1.567.273,43 euro da parte del CG; si ha, tuttavia, evidenza in base alla consultazione dei bilanci dell’ex concessionaria del pagamento da parte della stessa, in seguito ad accordo bonario stipulato il 3 marzo 2016, della cifra di 1.619.084,67 a scioglimento delle riserve apposte dal CG in sede di collaudo statico (analogamente è stata versata la somma di 104.000 euro alla Parsons, PMC).

Con riferimento alla Variante di Cannitello è agevole, dunque, determinare l’importo complessivo effettivamente erogato ad Eurolink quale corrispettivo per le prestazioni rese: ai corrispettivi maturati, come sopra individuati, va sottratta la cifra che Eurolink chiede in sede giudiziale a saldo delle prestazioni rese per la Variante, ossia 2.101.145 euro. Il totale già erogato da parte di Stretto di Messina s.p.a., pertanto, si attesta ad euro 13.851.700,79 (cui vanno sommati 1.619.084,67 euro già ricordati, erogati nel 2016): di tale importo non si conoscono le tempistiche di pagamento, tuttavia non è peregrina l’ipotesi che gli ultimi mandati di pagamento siano stati emessi non oltre 5 anni orsono, per cui, ravvisata nella spesa una voce di danno erariale, almeno le ultime tranche di pagamento saranno ripetibili in seguito all’auspicato intervento della Corte dei conti.

Si evidenzia, ad ogni modo, che la cifra più attendibile dei costi totali dell’opera è quella derivante dalle 7 rendicontazioni presentate dalla Stretto di Messina s.p.a. per l’importo complessivo di € 20.393.584,77, a fronte dei quali il MIT ha erogato a Stretto di Messina s.p.a. l’importo di € 18.689.000,00 corrispondente ad 11 quote annuali, e precisamente dal 2007 al 2017, di € 1.699.000,00 ciascuna, come previsto dalla delibera CIPE 83/2006.

A differenza che per l’opera principale, la quale non è mai venuta ad esistenza (per cui può ipotizzarsi che i costi sostenuti siano stati del tutto inutili e, come tali, del tutto dannosi per le casse erariali), la Variante è operativa. Tuttavia, non può tacersi come la stessa, non accedendo più all’opera principale cui era funzionalmente collegata, presenti una minor utilità rispetto al momento di progettazione ed aggiudicazione del contratto. Qualora non potesse considerarsi l’intero ammontare dei lavori quale voce di danno, senz’altro potrebbe ritenersi lesiva la minor utilità della Variante, i cui costi si giustificavano alla luce del suo inserimento in un progetto strutturato di interconnessione tra Calabria e Sicilia. Chiaramente, tale minor utilità appare difficilmente “monetizzabile”, per cui il calcolo del suo ammontare dovrebbe essere effettuato in via equitativa, tenendo conto del costo dell’opera e del fatto che le medesime finalità di rafforzamento dei trasporti nell’area di Villa San Giovanni potevano essere raggiunte con un esborso minore, con opere più “utili” (ossia non funzionalizzate alla realizzazione del ponte) e di minor impatto ambientale-paesaggistico. È ovvio, infatti, che una cosa è un’opera realizzata per far fronte al fabbisogno che il Ponte avrebbe determinato; altra cosa è un’opera destinata a soddisfare solo l’utenza locale.

Altra possibile voce di danno legata alla Variante di Cannitello è quella consistente nel deterioramento (si spera temporaneo, ossia finché non saranno completati i lavori di mitigazione, non ancora aggiudicati) dell’assetto paesaggistico e ambientale dell’area. Dal momento della conclusione dei lavori principali e della presa d’atto circa la rinuncia della parte pubblica alla realizzazione del ponte ad oggi, infatti, la Variante di Cannitello (per la quale si registra, tra l’altro, l’omissione della valutazione d’incidenza prescritta per le opere che hanno impatti sui Siti di Interesse Comunitario) ha comportato la presenza di una galleria artificiale con costoni in cemento armato nudo e di sbancamenti laterali che senza dubbio hanno inciso negativamente sulla qualità paesistico-ambientale del territorio interessato. Ciò pur volendo tacere il fatto che la “mimetizzazione” della galleria dovrebbe avvenire attraverso la collocazione, sulla stessa, di una collina artificiale in grado di interrompere la continuità paesaggistica e visuale tra città e mare.

Si ricorda che la qualità dell’ambiente e l’integrità del paesaggio, in quanto interessi facenti capo all’intera collettività (la cui cura, quindi, è demandata allo Stato e alle altre istituzioni pubbliche), devono essere considerati alla stregua di risorse erariali: il deterioramento di tali elementi, comportando una deminutio delle risorse, può rappresentare un danno erariale”.

Spese legali per resistere alle contestazioni avanzate in sede giudiziale dalle società appaltatrici e per recuperare l’indennizzo dovuto alla ex concessionaria

Una delle voci di spesa che debbono essere portate all’attenzione della Procura erariale, sono senz’altro quelle sostenute -e da sostenere- per la difesa giudiziale delle ragioni della parte pubblica.

Come si è già cennato,  Stretto di Messina s.p.a. e la controllante ANAS si sono affidate a professionisti esterni sia per resistere nei giudizi intentati dal Contraente Generale e dal PMC, sia per avanzare pretese nei confronti dei ministeri concedenti e della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativamente all’affermata spettanza di un indennizzo conseguente alla caducazione degli atti di concessione, pari a circa 325 milioni (ossia il totale dei costi sostenuti negli anni per il funzionamento della società e per l’attività di progettazione preliminare maggiorato del 10% e decurtato di finanziamenti già ricevuti). Già si è fatto notare il carattere grottesco di tale pretesa, dato che i costi della società sono stati affrontati con risorse pubbliche predisposte attraverso aumenti di capitale effettuati dagli enti partecipanti, per cui l’ulteriore corresponsione di 325 milioni rappresenterebbe una vera e propria duplicazione dei costi. Che a ciò si debba sommare un ulteriore esborso per le spese legali necessarie a sostenere una simile pretesa, rappresenta uno scenario al di là di ogni immaginazione per i contribuenti.

Non sono note, nel dettaglio, le spese legali complessive affrontate da Stretto di Messina s.p.a., le quali, per il solo 2016, ammontavano a 288.000 euro. Può presumersi, salvo l’ulteriore approfondimento che svolgerà codesta Procura erariale, che anche negli anni precedenti (almeno a partire dalla caducazione dei contratti e dalla contestuale liquidazione dell’ex concessionaria) gli importi siano stati simili se non superiori. Successivamente, almeno nel 2018, l’esborso per far fronte alle spese di giudizio dovrebbe essere diminuito, come può ricavarsi dallo scambio di comunicazioni tra MIT, ANAS e Stretto di Messina s.p.a., in base alle quali a partire da maggio 2017 gli onorari per il patrocinio generale sono stati decurtati del 40% (mentre, almeno nei propositi, sarebbero state rinegoziate anche le condizioni del patrocinio in giudizio)”.

Indennizzi per l’inutile apposizione e reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio dei terreni e degli immobili ricadenti nel cantiere dell’opera

Altra spesa sostenuta senza che sia stata conseguita alcuna utilità da parte della collettività è quella inerente agli indennizzi per l’apposizione dei vincoli preordinati all’esproprio delle aree interessate, reiterati a fine 2008. Non si conosce l’entità esatta di quanto dovuto a titolo di indennizzo ai privati proprietari degli immobili interessati, tuttavia il CIPE, con la delibera n. 91/2008, ponendone l’onere a carico di Stretto di Messina s.p.a., preventivava un importo di 5 milioni di euro. Il pagamento sarebbe dovuto rimanere a carico della concessionaria “anche nell’eventualità in cui le somme necessarie avessero dovuto superare l’importo stimato”.

Relativamente agli stessi, è convinzione della Stretto di Messina s.p.a  che non spetti ad essa corrispondere l’indennizzo, bensì agli enti concedenti, sempre in virtù della caducazione della concessione ad opera dell’art. 34-decies della l. n. 221/2012. Si è, pertanto, innescato un contenzioso (seriale) anche sul punto, con relative spese di giudizio.

La relazione deliberata nel 2016 dalla Corte dei conti (n. 17/2016) faceva menzione della proposizione, da parte di 34 proprietari, di istanze di indennizzo a Stretto di Messina s.p.a, formulate tramite unica diffida del 1° agosto 2014 indirizzata anche al Ministero delle infrastrutture, evasa negativamente dalla concessionaria che attribuiva al MIT la competenza in ordine alla liquidazione.

Si evince dalle relazioni allegate ai bilanci della ex concessionaria che, in relazione alla reiterazione del vincolo di cui si tratta, sono stati promossi due giudizi innanzi al Tribunale di Messina:

  • un primo (R.G. 593/11) per il quale è intervenuta, in data 5 agosto 2016, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Messina che ha condannato Stretto di Messina s.p.a. a corrispondere alla parte attrice, a titolo di indennizzo ex art. 39 del D.P.R. n. 327/2001, l’importo di Euro 238.000, oltre gli interessi legali su tale somma, dalla scadenza di ciascun anno di reiterazione del vincolo sino al soddisfo. Stretto di Messina s.p.a ha proposto ricorso per cassazione ma non ha ottenuto la sospensione degli effetti della sentenza, per cui ha dovuto ottemperare al pagamento (effettuato in data 1° agosto 2017 versando l’importo di Euro 609,68, al netto della ritenuta del 20% di legge di Euro 50.255,24, in favore dei quattro ricorrenti a ciascuno per la propria quota).
  • un secondo (R.G. 548/13) in cui inizialmente la CTU aveva stabilito in € 211.048,00 la misura dell’indennizzo, mentre la sentenza riconosceva un importo di 000 euro, oltre le spese legali. Lo stesso arresto non accoglieva la richiesta di accertare la legittimazione passiva del Ministero Concedente”.

I soggetti e le condotte

Sopra si sono ricostruiti con esattezza – per quanto possibile, e salvi i necessari approfondimenti istruttori di codesta Procura – i costi della mancata realizzazione del Ponte; occorre adesso individuare quali, con esattezza, siano state le condotte che hanno portato a sostenere le predette spese o, meglio, a sostenere quella parte di spese che poteva essere evitata assumendo iniziative differenti, ove si fosse agito in modo legittimo e comunque conforme ai canoni di buona amministrazione, che in questa vicenda appaiono platealmente violati. Ora l’indagine deve anche soffermarsi, pertanto, sul definire quali comportamenti dovevano essere assunti per evitare che i costi dell’opera fossero sostenuti senza conseguire alcuna utilità; i comportamenti così individuati potranno considerarsi rispettosi dei canoni di buona amministrazione che appaiono calpestati nella vicenda del Ponte.

Gli articoli 3 e 97 della Costituzione prevedono, infatti, che la pubblica amministrazione -ossia lo Stato e i suoi organi- agisca secondo ragionevolezza e proporzionalità, assicurando l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione pubblica.

L’azione contraria ai principi richiamati può considerarsi, quindi, come azione anti-doverosa ed eventualmente causativa di danno erariale: tutte le volte cui alla stessa consegua un “impoverimento” dell’amministrazione, compreso quello consistente nell’inutile o nel meno utile impiego delle proprie risorse, potrà ravvisarsi un danno erariale (sussistendone altresì l’elemento soggettivo).

Del resto, è patrimonio acquisito -derivante dalle pronunce di tutti i plessi giurisdizionali- il fatto che la legittimità dell’azione amministrativa e la liceità, dal punto di vista erariale, delle scelte operate dagli amministratori pubblici debbano essere poste in correlazione anche con l’art. 1, comma 1, della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità ed efficacia, che costituiscono specificazione del principio sancito dall’art. 97, comma 1 della Costituzione e che hanno acquistato dignità normativa, assumendo così rilevanza sul piano della legittimità dell’azione amministrativa: la verifica della legittimità dell’attività amministrativa, quindi, non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti; la violazione di tali criteri può assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità, dal momento che l’antigiuridicità dell’azione pubblica costituisce un presupposto necessario (anche se non sufficiente) della colpevolezza di chi l’ha posta in essere (cfr. Cass. SS.UU. n. 14488/2003, n. 7024/2006 e 8096/2007).

Ne deriva, pertanto, che la Corte dei conti, se interpellata sul punto, debba “verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità” (Cass. SS.UU. n. 18757 del 2008).

Dunque, il sindacato del giudice erariale “non può prescindere dalla valutazione tra gli obiettivi conseguiti ed i costi sostenuti ed il magistrato contabile ha comunque il potere-dovere di verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti” (Corte conti Sez. II Centr. 24 settembre 2010 n. 367) e ciò al precipuo scopo di verificare se le scelte operate dai pubblici amministratori “siano coerenti con i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa ovvero comportino l’adozione di scelte […] diseconomiche” (Corte dei conti, Sez. Giur. Toscana, 30 marzo 2016, n. 91).

In altri termini, “la Corte dei Conti ha il potere di controllare la conformità a legge dell’attività amministrativa in relazione ai fini imposti, in via generale o in modo specifico dal legislatore; il limite è costituito dal principio di ragionevolezza che riassume in sé quelli dell’economicità e del buon andamento costituzionalmente garantiti”; per cui “il giudice contabile […] può ben conoscere della non conformità del comportamento con i principi del buon andamento dell’azione amministrativa, di economicità, efficacia ed efficienza della stessa” censurando le scelte degli amministratori pubblici “in concreto operate [che] si pongono in contrasto con norme espresse o principi giuridici: tra questi i principi di buon andamento dell’azione amministrativa, nonché di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa” (Corte dei conti, Sez. III Centr. 11 dicembre 2013, n. 786).

Da quanto sopra chiaramente si evincono le coordinate entro le quali deve essere inquadrata la liceità o meno dell’azione posta in essere dai soggetti che a vario titolo hanno concorso allo sperpero di risorse pubbliche avvenuto nella vicenda che ci occupa: l’azione doverosa, ossia quella rispettosa del principio di Buon Andamento, avrebbe dovuto caratterizzarsi -come si specificherà nei paragrafi successivi- per una maggior considerazione della necessità di salvaguardare gli investimenti effettuati, nonché della possibilità di ritrarre una pur minima utilità dalle risorse impiegate e comunque avrebbe richiesto di riconoscere che, a fronte del naufragio del progetto, occorreva minimizzare le perdite future e massimizzare quanto già impiegato. Tutto ciò non è avvenuto”.

Le responsabilità sottese alla mancata tempestiva chiusura della liquidazione di Stretto di Messina s.p.a.

“Conviene, per economia del discorso e per il fatto che tale voce di spesa rappresenta una delle più chiaramente lesive tra quelle prima elencate, prendere le mosse dall’esame delle responsabilità dei soggetti preposti alla gestione liquidatoria di Stretto di Messina e alla celere conclusione del procedimento di liquidazione.

Stefania Vadalà

Difatti, pur dove si volesse considerare ordinatorio il termine previsto dalla legge per concludere la liquidazione societaria doveva considerarsi ordinatorio, è stata riconosciuta da più parti l’irragionevolezza di tale dilazione dei tempi e la lesività della prosecuzione della gestione. Peraltro, come accennato, l’offesa alle ragioni erariali -già concreta ed attuale- andrà approfondendosi nei prossimi anni visto che, a detta di Stretto di Messina e della controllante ANAS, la conclusione della liquidazione potrà avvenire solo dopo l’esaurimento del contenzioso, e potrebbe durare parecchi anni ancora.  

La Corte dei Conti, ancora a fine 2017 (del. n. 14/2017/G), faceva presente l’assenza più totale di “iniziative volte a rendere più celere la liquidazione della concessionaria, tanto più necessarie in quanto, prevedibilmente, le pendenze giudiziarie si protrarranno per un lungo periodo; ciò in violazione del dettato normativo che impone la chiusura della società entro un anno”, mentre il Ministero delle Infrastrutture, ex concedente, faceva notare come dall’art. 34-decies fosse derivata, assieme alla caducazione delle concessioni, la cessazione di ogni potere di intervento su Stretto di Messina s.p.a. in funzione di sollecitare la conclusione della liquidazione. Sempre il MIT, anche in considerazione del contenzioso medio tempore avanzato da Stretto di Messina s.p.a. contro gli altri soggetti pubblici coinvolti, osservava come “la società, che dovrebbe rappresentare la parte pubblica essendo stata investita della qualità di concessionaria ex lege, si trovi ad ispirare la sua condotta ad obiettivi che confliggono con tale configurazione”.

Tale grottesca situazione sconta anche una ripartizione delle competenze poco chiara che ha reso agevole per i soggetti coinvolti tergiversare colposamente: ognuno, infatti, afferma di non avere possibilità di intervenire sulla gestione della società in liquidazione, come reso palese dalla nota n. 67175 dell’8 settembre 2017 del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’economia (controllante di ANAS in seguito alla riconduzione di quest’ultima nel gruppo RFI), secondo cui “non appare condivisibile l’assunto del Ministero delle infrastrutture”, per il quale “ogni iniziativa volta alla cessazione della gestione commissariale è rimessa dall’art. 34-decies in via esclusiva al Ministero dell’economia e alla Presidenza del Consiglio dei ministri”. Del pari, secondo la Presidenza del Consiglio la norma “non attribuisce alcun’altra competenza alla Presidenza del Consiglio” che la nomina del commissario liquidatore (Nota n. 6212 del 9 ottobre 2017).

Ma le maggiori resistenze alla conclusione della liquidazione (che, come si dirà è ritenuta oltre che possibile, opportuna e necessaria da parte dell’Avvocatura Generale dello Stato), provengono da ANAS, azionista di maggioranza di Stretto di Messina s.p.a., che ritiene non “opportuna la chiusura della procedura di liquidazione, visti i riflessi pregiudizievoli sul rilevante contenzioso riferito all’attivo patrimoniale nei confronti delle parti private (il contraente generale ed il project management consultant), verso le quali è stata avanzata richiesta di risarcimento danni per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Il contenzioso pendente, infatti, non è rappresentato da una mera resistenza in giudizio, ma ha, altresì, ad oggetto pretese risarcitorie, a vario titolo qualificate verso le parti private, a tutela del patrimonio della società, dei creditori sociali e degli azionisti, tutti pubblici” (Nota n. 366330 del 13 luglio 2017). Ad avviso di  Stretto di Messina s.p.a. (v. nota n. 128 del 15 giugno 2018), se il commissario disponesse la chiusura della liquidazione, vi sarebbe una successione tra l’ex concessionaria ed i soci nei soli rapporti passivi, mentre, del tutto inspiegabilmente, per i rapporti attivi nessuna successione si realizzerebbe per le pretese azionate in giudizio, per le quali non corrisponda la possibilità di essere iscritte nell’attivo del bilancio finale di liquidazione. Ciò configurerebbe, sempre secondo Stretto di Messina s.p.a., una tacita rinuncia ai crediti.

In sostanza, per ANAS e Stretto di Messina s.p.a. la chiusura della liquidazione in pendenza dei giudizi pregiudicherebbe l’attivo patrimoniale della Società in liquidazione; le stesse, tuttavia, non offrono motivazioni convincenti al riguardo (se non la constatazione dell’autonomia di Stretto di Messina s.p.a. rispetto agli enti partecipanti), non spiegando perché i creditori pubblici di Stretto di Messina s.p.a. subirebbero un pregiudizio dalla chiusura della gestione liquidatoria; tanto più che al termine della stessa le posizioni attive di Stretto di Messina s.p.a. transiterebbero interamente, a differenza di quanto affermato, in capo agli enti partecipanti, per cui non si vede quale pregiudizio gli stessi potrebbero subire.

Le affermazioni di ANAS e della controllata sono tanto più gravi ove si consideri, poi, che le due società, nonostante si trincerino dietro l’esigenza di garantire la tutela del patrimonio sociale e quindi il valore della partecipazione pubblica, hanno impiegato le preziose risorse pubbliche per la produzione di pareri di esimi esperti indirizzati a sostenere la spettanza di un fantomatico indennizzo a favore di Stretto di Messina s.p.a. (per le prestazioni rese, già interamente finanziate con risorse pubbliche!), oltre che, ovviamente, per le successive spese legali connesse a tale pretesa. L’indennizzo in parola, si è già visto, rappresenterebbe un’inutile e nociva duplicazione dei costi dell’opera.

Non può che convenirsi, allora, con quanto puntualizzato recentemente dall’Avvocatura generale dello Stato (Nota n. 422125 del 7 settembre 2018; ma si veda anche la Nota n. 422125 del 7 settembre 2017), secondo cui “la pendenza giudiziale non impedisce, quale regola generale, la conclusione della fase di liquidazione, con subentro, nelle posizioni giuridiche attive e passive della società in liquidazione, dei soci della stessa. I quali, però, una volta intervenuto il bilancio finale di liquidazione e disposta la cancellazione della società dal registro delle imprese, risponderebbero dei debiti sociali nel limite di quanto dai medesimi eventualmente riscosso in base al bilancio finale di liquidazione (art. 2495 c.c.)”, il che sarebbe positivo nell’ottica di assicurare il minor esborso erariale possibile. Prosegue l’Avvocatura nel senso che “appare, peraltro, evidente che la determinazione di procedere alla chiusura della liquidazione è atto proprio del commissario liquidatore, anche se compulsato a tale fine dall’assemblea della società”, ossia da ANAS, azionista di maggioranza.

Che l’ostacolo principale alla liquidazione dell’ex concessionaria risieda proprio negli indirizzi della controllante, può evincersi da ulteriori circostanze: ad esempio, RFI (nel cui gruppo è nel frattempo transitata ANAS) ha chiesto, attraverso l’intervento di Stretto di Messina ed ANAS sui ministeri competenti, “in aggiornamento alle linee guida, specifiche direttive e indicazioni, e ciò anche al fine di poter superare la conflittualità tra Stretto di Messina e le amministrazioni statali” (nota n.1677 del 10 ottobre 2017); nell’adunanza del 17 ottobre 2017, però, il rappresentante di ANAS ha ritenuto non opportuna tale sollecitazione alle amministrazioni.

La nota di RFI suggerisce altresì che il MEF ed il MIT (che hanno elaborato le linee guida per la liquidazione di Stretto di Messina s.p.a.), ed anche la Presidenza del Consiglio, ben avrebbero potuto (ed anzi avrebbero dovuto), modificare i propri indirizzi nei confronti del liquidatore per accelerare il procedimento.

Ma la prova empirica del fatto che i soggetti citati avrebbero potuto attivarsi ben prima per raggiungere una soluzione concordata (si noti, si contesta la mancata attivazione di un procedimento di composizione degli interessi, non il mancato raggiungimento di una soluzione), sta nel fatto che, da ultimo, le amministrazioni coinvolte -in sede di misure da intraprendersi consequenzialmente alle delibere della Corte- hanno manifestato posizioni che, pur nella loro eterogeneità (fattore che rischia, invero, di prolungare lo stallo nella definizione della vicenda), dimostrano che vi era e vi è tuttora un margine per indirizzare il liquidatore verso la definizione del procedimento.

In particolare, come si evince dalla relazione di cui alla del. 23/2018 della Corte dei conti. Il Ministero dell’economia e delle finanze ha ipotizzato la costituzione di un Tavolo tecnico con la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l’Avvocatura generale dello Stato per la predisposizione di una norma che fissi tempi certi per la chiusura della liquidazione e disciplini la sorte dei rapporti pendenti; il MEF evidenzia, però, che ogni iniziativa al riguardo competerebbe alla Presidenza del Consiglio, la quale, tuttavia, “scarica il barile” proprio sul MEF, in quanto controllante di ANAS per il tramite di RFI, e sul MIT, in qualità di ente vigilante.

Solo nell’adunanza del 2 ottobre 2018 -nella quale, peraltro, sono risultati assenti due dei soggetti decisivi per la composizione della vicenda, il Ministero dell’economia e l’Avvocatura generale dello Stato- la Presidenza del Consiglio e il Ministero delle infrastrutture si sono impegnati per trovare una soluzione normativa concordata, tuttavia dimostrando che una simile intesa poteva essere cercata e raggiunta anche più tempestivamente.

Una simile proposta, o altre soluzioni intese a trovare il giusto compromesso, in definitiva, dovevano essere avanzate subito dopo la scadenza del termine per la chiusura della liquidazione, ossia il 15 aprile 2014, mentre arrivano a distanza di oltre 4 anni da quella data e solo perché è ormai chiaro che la liquidazione potrebbe durare un altro decennio e comunque a seguito dei numerosi ammonimenti ricevuti da parte della sezione di controllo della Corte dei conti.

Dunque, è palese che i soggetti preposti agli organi citati, ma soprattutto i responsabili pro tempore di ANAS, i delegati della stessa in assemblea di Stretto di Messina s.p.a., il liquidatore, nonché i titolari delle strutture del MEF e del MIT coinvolte, oltre che la Presidenza del Consiglio dei Ministri per quanto di competenza, hanno tenuto una condotta del tutto anti-doverosa, contraria ai principi di cui agli artt. 3 e 97 Cost, a quelli di cui all’art. 1 della l. n. 241/1990 e, soprattutto, contraria a quanto previsto nelle stesse linee guida interministeriali (Decreto interministeriale n. 20959 del 12 settembre 2013) secondo cui la liquidazione doveva svolgersi in coerenza con i principi di economicità, efficacia ed efficienza.

Se la mancata attivazione di misure, anche di carattere normativo, necessarie o comunque utili a ricondurre a normalità l’incresciosa vicenda è stata del tutto volontaria, per quanto riguarda la violazione dei principi richiamati, tutti i soggetti citati versano senz’altro in stato di colpa grave, non potendo gli stessi ignorare che la propria condotta avrebbe portato ad una lievitazione dei costi che la liquidazione della società era specificamente intesa ad evitare.

Non è sufficiente ad escludere una responsabilità, anche sotto il profilo soggettivo, di tali soggetti neanche la progressiva riduzione dei costi dell’ex concessionaria (sollecitata, peraltro, dal MIT in funzione di Ministero vigilante), dato che la stessa non è in grado di emendare l’inerzia serbata per anni dagli stessi, che ben avrebbero potuto attivarsi per tempo nell’ottica di raggiungere una soluzione concordata che, quantomeno, definisse tempi certi per la liquidazione”.

Le responsabilità in ordine alla richiesta di indennizzo – ed ai relativi costi legali – avanzata da Stretto di Messina s.p.a. nei confronti di MIT, MEF e Presidenza del Consiglio dei Ministri

“Non c’è dubbio che tra i costi della gestione liquidatoria di Stretto di Messina s.p.a. i più ingiustificati siano proprio quelli relativi al contenzioso nei confronti dei soggetti pubblici per ottenere l’indennizzo di circa 325 milioni asseritamente conseguente alla caducazione delle concessioni. Si ribadisce che, qualora tale indennizzo fosse ottenuto, lo stesso rappresenterebbe per l’erario una inutile duplicazione di costi già sostenuti e, in definitiva, concreterebbe tout court un danno erariale azionabile da parte della Procura.

Orbene, anche se non volesse (o non potesse) riconoscersi quale danno erariale l’intero costo del mantenimento della società oltre il termine di conclusione della liquidazione, senz’altro dovrebbe richiedersi ai soggetti responsabili la rifusione di tutte le spese legali inerenti alla (del tutto eccentrica e controproducente) richiesta.

Ciò è tanto più vero qualora si consideri che la stessa proposizione della richiesta indennitaria è stata una delle cause principali della litigiosità che ha condotto al prolungamento dei tempi di liquidazione, dato che la fermezza di ANAS e Stretto di Messina s.p.a. nel proseguire su tale strada, nonché la speculare ferma opposizione degli altri soggetti pubblici all’erogazione dell’astronomico indennizzo, sono alla base della difficoltà di trovare soluzioni condivise per la celere definizione del procedimento di liquidazione.

Del resto, che la mancata chiusura della liquidazione, nelle intenzioni di Stretto di Messina s.p.a. e, dunque, di ANAS, sia strumentale a mantenere in piedi l’assurda pretesa indennitaria si evince dalle stesse comunicazioni intercorse tra la stessa e la Corte dei conti, nelle quali si rende chiaro che il timore dell’ex concessionaria risiede nel fatto che con la chiusura della liquidazione “potrebbero essere ritenute oggetto di rinuncia […] la pretesa di indennizzo nei confronti dello Stato […]” oltre che le domande riconvenzionali proposte nei confronti delle parti private (per le quali, si è visto, l’allarme di Stretto di Messina s.p.a. è ingiustificato).

Non può escludersi, tuttavia, la presenza di una responsabilità concorrente di tipo omissivo in capo a MIT, MEF e Presidenza del Consiglio, dato che, come evidenziato anche dalla Corte dei conti nel 2018, “in tale situazione di confusione, non risultano nemmeno ancora intraprese da parte delle amministrazioni iniziative, oltre quelle di resistenza in sede giudiziaria, per contrastare le pretese di indennizzo della società nei loro confronti”.

Quel che è certo, tuttavia, è che la situazione che si è venuta a creare “risulta contraria ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo, tenuto anche conto che quanto eventualmente ottenuto in sede giudiziaria ritornerebbe agli azionisti dopo l’estinzione della società” (del. n. 23/2018).

Pertanto, non potrà in alcun modo escludersi che le spese sostenute per coltivare la richiesta indennitaria in parola concretino, nella loro interezza, un danno erariale, sussistendo senz’altro, relativamente alle stesse, l’elemento soggettivo della colpa grave, avendo i soggetti coinvolti (ma principalmente Stretto di Messina s.p.a. e l’azionista ANAS) agito con particolare negligenza e del tutto imprudentemente, mettendo a repentaglio ed infine violando i principi di buon andamento dell’azione amministrativa.

Indicazioni univoche circa la sussistenza dell’elemento soggettivo così connotato, possono trarsi “a contrario” anche dal fatto che la colpa grave può intendersi esclusa “quando  l’azione  amministrativa si è conformata al parere reso dalla Corte dei conti in via consultiva, in sede di controllo” (art. 69, c.2, c.g.c.), per cui, di converso, quando l’attività di controllo abbia suggerito di adottare alcuni accorgimenti o abbia prescritto le condotte per evitare conseguenze lesive per l’erario e a tali moniti non si siano conformati i destinatari, la condotta degli stessi sarà necessariamente connotata da colpa grave”.

Le responsabilità connesse alla mancata realizzazione dell’opera principale ed ai relativi esborsi inutilmente sostenuti

Più a monte, a generare il danno da mancato raggiungimento delle finalità pubbliche cui erano preordinate le spese sostenute e richiamate nel presente esposto, sono state le condotte dei Governi che, nonostante gli impegni presi con i soggetti affidatari -ma soprattutto con i cittadini- hanno deciso di abortire la realizzazione dell’opera, senza tuttavia mai formalizzare per tempo tale intenzione tramite gli strumenti previsti dall’ordinamento e ricorrendo ad espedienti (come i plurimi definanziamenti ed infine una legge-provvedimento, sospettata di incostituzionalità, che, nonostante quanto dichiarato, aveva l’unico fine di caducare i contratti validi ed efficaci) che hanno avuto l’unico effetto di non fare immediata chiarezza sulle sorti del progetto, così generando posizioni di affidamento in capo ai soggetti interessati, poi brutalmente lese quando, a marzo 2013, era ormai divenuto chiaro che il Ponte non sarebbe mai stato realizzato. Una linea politica chiara e trasparente verso i cittadini e gli imprenditori avrebbe evitato molti esborsi alle casse erariali; invece,  i Governi in carica a fine 2006 e nel 2012 hanno preferito optare per soluzioni opache, col fine di non assumersi la responsabilità per la scelta che stavano facendo, cioè abbandonare il Ponte poco prima della sua posa in opera.

Se, infatti, a fine 2006, anziché dirottare, con il D.L. n.  262  del  2006, le somme destinate all’aumento di capitale di Stretto di Messina s.p.a. verso altre utilizzazioni (si rammenta che la mossa fu più che altro un “trucco contabile”, dato che poi quei fondi non sono mai stati impegnati per lavori alternativi), si fosse provveduto a dichiarare la volontà di recedere dal contratto, sarebbero state pagate delle indennità irrisorie, pressoché nulle. Il contratto originario, infatti, prevedeva il pagamento delle “prestazioni correttamente eseguite, nonché il rimborso delle eventuali spese sostenute purché giustificate e ritenute congrue dalla Stretto di Messina”: nell’ottobre 2006 non era stata ancora resa alcuna prestazione e le spese sostenute dagli affidatari erano esigue.

Di contro, era agevolmente pronosticabile che lo stallo generato dalla soluzione del definanziamento e della sospensione dell’esecuzione dei contratti avrebbe prestato il fianco a pretese degli affidatari che in quella mossa avevano letto, a buona ragione, un inadempimento unicamente ricollegabile al fatto della parte pubblica, con conseguente possibilità di reclamare la risoluzione dei contratti o di richiedere l’esatto adempimento degli stessi. La decisione di procedere al definanziamento, dunque, era geneticamente affetta da un palese vizio di irragionevolezza ed appariva, già allora, contraria ai principi di buona amministrazione.

Ancora, se il Governo dell’epoca avesse correttamente manifestato la maturata volontà di non proseguire con la realizzazione dell’opera, non sarebbe stato necessario provvedere a fine 2008 alla reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio cui conseguono ex lege degli esborsi a titolo di indennizzo.

Peraltro, l’atteggiamento ambiguo dell’esecutivo che ha governato tra il 2006 ed il 2008, il quale, come detto, non ha inteso “chiudere la porta” al progetto di collegamento stabile, ma al contempo ha distratto le risorse strumentali alla realizzazione dello stesso, ha messo “con le spalle al muro” il successivo Governo. Questo, preso atto della perdurante validità ed efficacia dei contratti stipulati e dell’omesso esercizio del diritto di recesso della parte pubblica, non ha potuto far altro (essendo nelle intenzioni di quell’esecutivo rispettare gli impegni assunti con i cittadini 3 anni prima) che raggiungere un accordo transattivo con gli affidatari e cioè l’integrativo del 2009. Gli operatori economici, temendo successive interruzioni del rapporto contrattuale, a fronte della rinuncia alle riserve nel frattempo sollevate, hanno richiesto condizioni contrattuali di favore proprio per scoraggiare i Governi che si sarebbero avvicendati a porre in essere strategie attendiste o di rinuncia all’opera.

Alle condotte appena richiamate, si aggiungono, in quanto idonee ad approfondire l’offesa già dalle prime scaturente, quelle del 2012: in quella circostanza, l’esecutivo appena insediatosi, anche a causa di pressioni internazionali concernenti la situazione del debito sovrano italiano, nuovamente dissimulava la propria volontà di non dare ulteriore corso ai lavori dapprima utilizzando il solito espediente del definanziamento (delibera CIPE n. 6 del 20 gennaio 2012), poi disponendo, con legge-provvedimento, la sospensione degli effetti dei contratti e l’obbligo di stipulare un nuovo contratto aggiuntivo recettivo delle modifiche in peius per la parte privata (che ormai aveva maturato un legittimo affidamento sull’esecuzione delle prestazioni, dato che il progetto definitivo era stato approvato da Stretto di Messina s.p.a. nel luglio dell’anno precedente), pena la caducazione di tutti gli atti concessori e dei contratti stessi. Tutto ciò il giorno precedente rispetto allo scadere del termine per l’approvazione del progetto definitivo da parte del CIPE.

In quella circostanza gli aggiudicatari intavolavano delle trattative per addivenire alla stipula di un atto aggiuntivo che soddisfacesse entrambe le parti del rapporto negoziale, scontrandosi, però, con la volontà della parte pubblica di non prorogare il termine per la stipula dell’atto aggiuntivo, chiaro segno del fatto che la funzione normativa esercitata con il D.L. n. 187/2012 era sviata rispetto ai canoni di imparzialità e buon andamento: al di là delle premesse, che poggiavano sulla necessità di ridefinire il piano di finanziamento dell’opera da parte dei privati (i cui capitali andavano reperiti sul mercato), il Governo con la decretazione d’urgenza intendeva far calare il sipario sul progetto di collegamento stabile, senza però andare incontro, almeno nell’immediato, alle conseguenze pregiudizievoli del recesso della parte pubblica.

Peraltro, la caducazione dei contratti interveniva proprio nel momento in cui si erano fatti avanti importanti investitori che credevano nel progetto e nella remuneratività dell’investimento, soggetti nei confronti dei quali lo Stato italiano ha mostrato un atteggiamento freddo e miope, che ne ha minato, anche per gli anni a venire, la credibilità. Infatti, al di là degli esborsi patrimoniali inutilmente sostenuti, il più grande danno provocato da quell’esecutivo è stato all’immagine internazionale del Paese, il quale, infatti, da allora fatica non poco a reperire investimenti internazionali, essendo venuta meno la fiducia delle imprese nei propri confronti. Il solo termine “caducazione” inserito in quel D.L. sarà per anni un deterrente per gli investimenti in grandi opere: ammesso che riusciremo a realizzarne qualcuna, vista la pregiudiziale ideologica sul punto che si è osservata negli ultimi anni, da ultimo con il caso TAV.

L’inserimento nella citata l. 221/2012 di un criterio di determinazione dell’indennizzo del tutto eccentrico rispetto alla disciplina generale del recesso del committente dall’appalto, ha senz’altro favorito le ragioni di contestazione da parte degli aggiudicatari ed ha radicalmente ostacolato la stessa possibilità di giungere ad un accordo transattivo tra le parti, a definitiva tacitazione di ogni pretesa, così condannando i soggetti coinvolti a darsi battaglia a suon di atti giudiziari per gli anni a venire. L’art. 34-decies, infatti, si appalesa del tutto incostituzionale, in quanto viola i canoni di imparzialità, ragionevolezza e proporzionalità cui deve attenersi l’agire pubblico (v artt. 3 e 97 Cost.). A fronte della marchiana violazione di tali principi, rientra nell’ordine delle cose che le controparti private non vogliano mitigare le proprie richieste e vogliano andare “fino in fondo” alla questione che, qualora non giudicata incostituzionale da parte del giudice delle leggi, sarà senz’altro portata all’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: quest’ultima ha sempre ritenuto quale valore fondamentale la correttezza nei rapporti tra amministrazione e privati, la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa e, soprattutto, la tutela del legittimo affidamento. Non è improbabile, quindi, che in quella sede le imprese aggiudicatarie possano ottenere giustizia, a prescindere dall’esito del giudizio innanzi alla Consulta.

Se poi, come sembra dalle difese giudiziali di Stretto di Messina s.p.a., a fondamento della decisione di non approvare il progetto definitivo e di intervenire, quindi, col predetto mezzo “fraudolento”, vi erano dubbi sulla fattibilità tecnica e sull’impatto ambientale del progetto, gli stessi potevano essere legittimamente avanzati in pendenza del termine per l’approvazione da parte del CIPE: in quella sede, infatti, poteva subito comunicarsi che il progetto non era “completo” e che, quindi, non era integrata la fattispecie di cui all’art. 5.2 dell’accordo del 2009. In tal modo, probabilmente, il contenzioso con la parte privata sarebbe risultato più agevole e non vi sarebbe stata la necessità di agire con una legge provvedimento o, quantomeno, qualora si fosse comunque adottato tale mezzo per la modifica unilaterale delle condizioni, lo stesso non avrebbe attirato tutti i richiamati sospetti di illegittimità”

I danni erariali: sintesi

“Riassumendo, il danno erariale per cui dovrebbe agirsi innanzi alla Corte dei conti, pertanto, si sostanzia:

  • nei costi della gestione liquidatoria di Stretto di Messina a partire dalla scadenza del termine previsto per la conclusione delle attività di liquidazione o almeno a partire dalla data in cui era ragionevole aspettarsi che i soggetti pubblici individuati si attivassero per trovare una soluzione condivisa sul punto; pari circa a 7 milioni di euro;
  • quantomeno nelle spese sostenute da Stretto di Messina s.p.a. e ANAS per sostenere in via giudiziale ed extragiudiziale, avvalendosi della collaborazione di autorevoli professionisti esterni, una pretesa di indennizzo pari a circa 325 milioni di euro in virtù della caducazione delle convenzioni provocata dall’art. 34-decies della l. n. 221/2012. Il contenzioso che si è generato intorno a tale richiesta è contrario ad ogni logica di buona amministrazione dato che l’indennizzo viene richiesto per prestazioni già interamente remunerate con risorse pubbliche, per cui lo Stato si troverebbe “a pagare due volte”;
  • più in generale, in tutti i costi sostenuti inutilmente, ossia senza che sia stata conseguita alcuna utilità o almeno in quelli che si sarebbero potuti evitare se si fossero attivati prontamente i mezzi ordinariamente previsti per il recesso della parte pubblica. Alcuni di questi sono danni concreti ed attuali, ossia corrispondono a somme già erogate, come i pagamenti per le prestazioni di Eurolink, Parsons, ATI-Fenice, compresi quelli sostenuti per i lavori della Variante di Cannitello; pari circa a 91 milioni di euro;
  • quanto alla Variante di Cannitello il valore del danno va calcolato, però, sia con riferimento all’utilità (scarsa) comunque conseguita con il raddoppio della linea in quel tratto, sia avendo riguardo all’impatto paesistico-ambientale del tutto negativo che ha assunto l’opera nelle more degli ulteriori lavori di mitigazione ambientale e camuffamento. In sostanza, dato che alle spese sostenute per la Variante ha corrisposto una minore utilità (in quanto la variante stessa si giustificava come opera accessoria al Ponte, poi non realizzato) e un maggior carico ambientale, l’ammontare del danno erariale è uguale al valore di tale minore utilità e alla perdita della qualità paesistico-ambientale patita;
  • sarà un danno erariale nel momento in cui verrà corrisposto, invece, quanto dovuto a titolo di indennizzo al contraente generale e al Project Management Consultant o quantomeno la parte che poteva essere evitata esercitando il recesso nel 2006, quando si era deciso di non dare corso al progetto e l’esecuzione dei contratti non era ancora iniziata, per cui nulla o quasi era dovuto;
  • A queste somme deve essere sottratto il valore o l’utilità attuale del progetto definitivo che è entrato a far parte del patrimonio di Stretto di Messina s.p.a. e che, quindi, transiterà ad ANAS al termine della liquidazione.
Foto StrettoWeb / Salvatore Dato

Nel caso oggetto dell’esposto, peraltro, sembra delinearsi il paradigma del c.d. danno da disservizio, ossia quello che deriva dal minore o non corretto rendimento della spesa pubblica e che si sostanzia in una lesione al “risultato finale dell’azione pubblica”, inteso come bene appartenente al patrimonio pubblico, ma ancor più alla collettività.

La giurisprudenza della Corte dei conti, proprio attraverso questa figura di danno erariale, ha rafforzato la tutela dei principi di buona amministrazione, giungendo a censurare tutte quelle condotte, perpetrate da chi sia legato all’amministrazione da un rapporto di servizio, dalle quali derivi l’effetto di una perdita patrimoniale tangibile nelle casse dell’ente, in termini di somme inutilmente spese per perseguire gli obiettivi stabiliti ma non raggiunti (cfr. Corte dei conti, sez. I App., 12 febbraio 2014, n. 253).

Quello che ha avuto di mira la giurisprudenza nel giudicare casi in cui, per l’appunto, le risorse pubbliche fossero impiegate inutilmente è stata, quindi, la tutela della collettività per i danni sofferti a causa dell’azione inefficiente ed inefficace dei soggetti pubblici.

Tutela che si confida di ottenere anche in questa occasione, per la quale, dunque, si chiede alle Procure in epigrafe di intervenire approfondendo le indagini e ricostruendo con più esattezza vicende, costi, soggetti, condotte causalmente ricollegabili agli esborsi e relative responsabilità, al fine di promuovere l’azione contabile”.  

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