Ceccato 98 – Gambarie

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ceccato 98di Enzo Cuzzola – In paese, molti avevano le stalle, accanto alla casa colonica, e vi allevavano, a volte singolarmente a volte in commistione, vitelli, maiali, pecore, capre, galline e conigli. Fra questi vi era Mico l’Africano (in effetti si chiamava Logiudice, ma tutti lo chiamavano così per via del colorito scuro) che allevava alcune pecore, dono del suocero che, a San Giovanni di Sambatello, aveva un gregge numerosissimo e che, in estate, faceva transumare fino ai campi di Reggio. Mico aveva chiesto a mio padre di fare, con l’ape, un viaggio di “felci” dai campi di Reggio fino al paese, in quanto lui possedeva e guidava soltanto un “vespino 50”, sul quale faceva accomodare dietro, seduta di traverso come d’uso, la moglie. Quella domenica di agosto, mi dovetti svegliare ancora una volta prestissimo, dato che mio padre mi aveva invitato ad accompagnarlo.

La strada era interminabile, Prumo, San Cristofaro, poi risalendo il torrente sterrato della Carrubbara, Condera, Pietrastorta, Terreti, Santa Domenica. Poi su per una strada ripidamente impossibile per la povera ape, che si straziava di fatica, urlando disperatamente e ribollendo il fondo schiena dei passeggeri con il motore su di giri e di calore. Era appena una mulattiera tracciata dai Consorzi di Bonifica. Mio padre mi raccontò della sua gioventù, prima della guerra, quando a cavallo di un asino, si arrampicava notte tempo, dormendo sulla groppa dell’asino, per arrivare in cima a prendere carbone o ghiaccio, a seconda della stagione, da trasportare in città. Arrivammo intorno alle nove. Mico, il suocero, la moglie ed i giovani cognati erano intenti a “fare” (tagliare) felci. Mio padre allora decise di farmi una sopresa.

Montammo nuovamente sull’ape e risalendo ancora incrociammo la Melito- Gambarie, sulla quale, attraverso il bivio di Sant’Antonio ed una serie di curve e ponticelli, dei quali uno mi colpì per la presenza di una garitta militare residuato della guerra, dopo una diecina di minuti, giungemmo a Gambarie. Qui piazza Mangeruca , al centro della quale sorgeva un distributore di benzina, era il terminale di una grandissima pista da sci, servita da una meravigliosa seggiovia. Era pieno di gente che scendeva dalle lussuose automobili per godere la frescura ed il paesaggio. Comprammo della calia ad un banchetto.

Tornati al campo delle felci, il raccolto era pronto, ma il suocero ed i cognati di Mico, dissero che non si poteva andare via prima di aver mangiato qualcosa assieme. Mio padre, un po’ per fame e, forse, molto per non dispiacerli, accettò. Tirarono fuori il ben di Dio, sistemandolo su una, straordinariamente, linda tovaglia, appoggiata su una panca di legno posta all’esterno del “pagghiaro” (casetta del pastore aspro montano) sotto un capanno fatto di felci rinsecchite. Ricotta, formaggio, salame, capicollo, olive salate, e soprattutto pane di jurmano (segale), vino a volontà. Fu una bella festa assieme a quella famiglia semplice, ma i cui valori trasparivano nettamente.

La sera addormentandomi feci la considerazione che quel posto e quella gente mi aveva fatto provare una forte sensazione di serenità, rendendomi le preoccupazioni per la salute molto più lievi, ci sarei dovuto tornare spesso.

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