Ceccato 98 – Tre ore di buio

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di Enzo Cuzzola – Il venerdì Santo era un giorno triste. Intanto svegliandomi vidi il cielo mmuffuratu (plumbeo) più del solito, mia madre disse che era il tempo di Passione. Poi mi disse di prepararmi per andare con lei. Saremmo scesi in città con l’autobus, per andare a visitare i sette Sepolcri.

Visitammo sette chiese. Ci fermammo a pregare davanti ai tabernacoli ornati di fiori e di vasi di grano “infiocchettati”. Molte famiglie facevano la stessa cosa e ci si incrociava nelle varie chiese. Ma la cosa non mi piaceva, infatti le chiese erano allestite a lutto. Tutte le sacre effigi nascoste da drappi di velluto viola. Mi sentivo orfano.

Tornammo a casa nel primo pomeriggio, appena in tempo per la funzione del venerdì Santo. Non pranzammo, perché in quel giorno bisognava rispettare assolutamente il digiuno e l’astinenza. Avrei voluto digiunare anche io, ma mia madre disse che i bambini  e gli anziani erano esonerati, quindi tra una chiesa e l’altra mi comprò un paninello al burro al rinomato forno Liconti, che li faceva buonissimi.

Zio prete mi aveva spiegato che Gesù, contrariamente a quanto crediamo, non muore a causa dei nostri peccati, ma per l’amore che il Padre ha verso di noi. Si sacrifica per noi per darci la salvezza eterna. Non avrei dovuto quindi essere triste in quel giorno, perché rappresentava la nostra salvezza e l’amore di Dio nei nostri confronti. Ma non ci riuscivo.

La funzione del venerdì contribuì ad accrescere la mia tristezza. Le campane non avevano suonato per annunciare la funzione, gli ultimi rintocchi con il Gloria del giorno prima, poi basta. Non si celebrava la Santa Messa, il sacerdote si limitava a somministrare l’Eucarestia ai partecipanti, con le Ostie consacrate il giorno prima. La funzione era incentrata sulla Adorazione della Croce. Recitavamo: ti saluto o Croce Santa, che portasti il Redentor….”.

Ma la maggior tristezza, il vero momento di sconforto, fu in coincidenza col buio tra l’ora sesta e l’ora nona.

L’unica cosa che mi piacque di quella funzione fu la prostrazione del sacerdote. Condividevo il gesto, perché, forse, aveva ragione zio prete nel dire che il Signore si era sacrificato per amore, ma noi come potevamo rimanere impassibili a tutto quel dolore, dell’uomo sulla Croce. Si era sacrificato per noi. Come potevamo non sentire il dolore della flagellazione, come potevamo non sentire i chiodi tra i polsi e tra i piedi, come potevamo non sentire le spine della corona sulla fronte e la lancia nel costato. Come potevamo non sentirci umiliati, per come l’umanità aveva trattato quell’Uomo.

Mi ricordai delle storie che mio padre e zio prete mi avevano raccontato sul nazismo e sui campi di concentramento degli ebrei. Pensai che la lezione della Croce, a noi uomini, non aveva insegnato nulla.

La sera mia sorella Marisa, invece, disse che la Croce era la nostra vera gioia, perché ci aveva consegnato la speranza nella vita eterna. Capì il significato. Anche se continuai a sentirmi un verme, in quanto uomo, per come trattammo nostro Signore.

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