Ceccato 98 – Natale

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di Enzo Cuzzola – Il lamento della ciarameddha di compare Pietro Camera, aveva annunciato il Natale per una intera settimana. A scuola il maestro Zaccaria ci aveva intrattenuto, per alcune lezioni, spiegandoci il significato religioso ed umano di quella festa. Zio prete dal canto suo aveva invece, come sempre, reso più concreto il significato della festa. Natale è la festa della solidarietà e dell’amore. Se Dio riesce ad amarci fino al punto di rendere Uomo il “suo” Figlio e farlo nascere in una misera capanna, per renderlo simile agli ultimi, ai diseredati, ai bisognosi, come potremmo noi sottrarci a questa regola di amare il prossimo come noi stessi. E se amiamo il prossimo dobbiamo farci carico dei suoi bisogni, delle sue necessità, fino al punto di condividere tutto ciò che abbiamo.

Già la condivisione. Avevo imparato a conoscerla, nei gesti semplici di zio Demetrio o di mio cugino Nino, che avevano sempre qualcosa da “passare” a mia madre, tornando dal giardino, come in occasione delle visite periodiche che compare Alessio faceva a mio padre. Ma anche da come mio padre trattava gli zingari che gli collaboravano nella raccolta dei bergamotti.

Già la Provvidenza.  Mio padre ripeteva ogni sera, dopo la festa dell’Immacolata, che per Natale la Provvidenza si sarebbe presentata copiosa e lui non poteva starsene con le mani in mano. Comprò, dal grossista di piazza Carmine, una quantità enorme di zucchero fondente e canditi. Si fece predisporre dal falegname una forma trapezoidale di compensato e cominciò a produrre “torrone gelato”. Gli chiesi se avesse avuto intenzione di vendere tutta quella roba e, quando rispose di no, pensai fosse ammattito: come avremmo potuto mangiare tutto quel dolce.

Finalmente arrivò la vigilia. La mattina compare Pietro Camera si presentò puntuale con il lamento della sua ciarameddha, il primo pezzo di torrone gelato andò via con lui. Fu l’inizio di una processione di amici e parenti che arrivavano con un omaggio per la nostra famiglia: noci, fichi secchi, castagne, salame, capocolli, pollame, petrali, e chi più ne aveva più ne portava. Ognuno andava via con il suo bel pezzo di torrone gelato, del quale papà andava orgoglioso.  Ebbi il sospetto che papà e mamma fossero più contenti nel dare che nel ricevere.

Non pranzammo, ma mangiammo solo crispeddhe farcite con alici o baccalà e per dolce crispeddhe spolverate di zucchero. Ci preparavamo per il cenone, digiunando, o almeno si faceva per dire. Per il cenone pasta col sugo dell’arunco, arunco, pesce stocco a ghiotta e baccalà in umido e fritto, poi crispeddhe noci, fichi secchi, castagne e petrali.

Vegliammo tutta la notte, giocando a tombola e carte. La mattina tutti a Messa, come aveva ordinato zio Prete, compreso il miscredente di suo fratello, come aveva detto. Poi di nuovo abbuffata e poi tombola e carte.

Che bella festa, che calore in famiglia. Ma soprattutto festa di solidarietà e di amore, infatti come aveva spiegato zio prete, per quella festa si poteva godere di qualche piatto in più, ma senza dimenticare chi avesse bisogno. Fu così che il miscredente, di suo fratello, mio padre, il pomeriggio stesso inforcò la Ceccato 98, sul cui sellino posteriore aveva riposto una sporta, e portò ai suoi amici zingari una cospicua parte di tutto quel ben di Dio che avevamo ricevuto.  Papà mi disse che la regola della Provvidenza che nonno Paolo aveva insegnato a lui ed ai suoi fratelli era che più si sarebbe dato, più si sarebbe ricevuto.

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