Ceccato 98 – Cudduraci e peccato veniale

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di Enzo Cuzzola – All’avvicinarsi della Pasqua, in ognuna delle nostre case, bisognava preparare i cudduraci. Che Pasqua sarebbe stata, senza il nostro tipico dolce augurale. Infatti, il maestro Zaccaria ci aveva spiegato che l’uovo rappresenta il simbolo e l’augurio della nuova vita, che in fondo era il messaggio portato da nostro Signore, che, con il suo sacrificio sulla Santa Croce, si era immolato per la redenzione dei nostri peccati e per lasciarci appunto il messaggio di una nuova vita. Anche il Concilio, secondo zio prete, voleva risaltare il messaggio ed il significato della nuova vita. Ecco allora che era d’obbligo il cuddurace per Pasqua.

Il cuddurace era fatto di pasta frolla, la lavorazione era una festa alla quale assisteva tutta la famiglia. In alcune case, quando la mamma non era abilissima in questa arte, si ricorreva all’aiuto di qualche vicina o parente particolarmente abile. Da noi ci pensava mia cugina Teresa, figlia di prime nozze di zio Demetrio, mamma dei miei cugini Pino e Lina. Teresa era abilissima, impastava, sapientemente e con “metodo”, farina, zucchero, uova, strutto, burro, lievito, vaniglia, arancia grattugiata ed un pizzico di sale. Quando la pasta era pronta preparava le forme (portava con sé alcuni modelli di carta velina, come si usava per i modelli di sartoria): canestri, pesci, uccelli, pulcini, galline, cuori, ecc., poi vi poneva sopra un numero dispari di uova, bollite e non sgusciate, che avevamo messo da parte per tutta la Quaresima. Ricopriva con un altro strato di pasta, poi spennellava con rosso di uovo e spargeva sopra un pugno di “diavolicchi”, palline piccolissime di zucchero colorato. I dolci pronti venivano posti su delle apposite sporte di legno, che venivano trasportate, dai vari membri della famiglia, al forno della cooperativa. Qui Mimmo, il fornaio, e Cila Cila, cuocevano tutti i cudduraci del paese, in cambio di un grazie ed un dolce in omaggio. Al forno c’era un festoso via vai di gente, che all’ora programmata e concordata arrivava con le sporte. I cudduraci dopo la cottura venivano riportati a casa dentro un paniere, avvolti da una linda tovaglia da tavola e conservati nella “cascia” sino al giorno di Pasqua, infatti durante la Quaresima non si potevano mangiare “senza fare peccato”.

La grandezza del cuddurace, qualunque fosse la forma, dipendeva dal numero di uova sode. Il numero di uova sode dipendeva dall’importanza del destinatario. Quello più grande era destinato dalle ragazze al fidanzato. Più grande era l’amore più erano le uova sode, più grande il cuddurace. A me era toccato un cuore con un solo uovo sodo al centro, ma in fondo ero il più piccolino ed era giusto così, in base alla gerarchia familiare delle uova sode. A zio Angelo, il prete, mia madre aveva dedicato, una grossa colomba con al centro tre uova sode, in segno della Santissima Trinità. Egli si complimentò per l’aspetto e la cottura del cuddurace, poi chiese gli fosse consegnato da subito, che avrebbe preferito conservarlo nella sua camera.

Seppure zio prete non fu esplicito, intuì la ragione della sua richiesta. Per non sapere leggere e scrivere, prima che fosse sera, aprì la cascia di nascosto ed avvolsi il mio cuddurace nella federa di un cuscino, che nascosi sotto altre federe nell’armadio di mamma in camera da letto. Volevo prevenire gli strani “topoloni” che giravano per casa, che avrebbero sicuramente rosicchiato tutta la pasta, lasciando solo l’uovo, così il peccato sarebbe stato solo veniale.

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