Per presentare fedelmente l’ultima fatica letteraria del professore Vincenzo De Benedetto non si può che partire dal suo concepimento che coincide con il ritrovamento di una “miniera” di documenti politici inediti sui Fatti di Reggio. Una serie sconfinata di carteggi e verbali sfuggiti agli storici che permettono di gettare una nuova luce su una pagina di storia d’Italia ancora nascosta nell’ombra. Cionondimeno, per veramente comprenderla, fondamentale è sottolinearne la lunga gestazione, quasi decennale (testimonio le prime doglie sin dal lontano 2010). Si consegna quindi al lettore il risultato di una gravidanza travagliata. Si dà il caso che l’autore, il quale si dichiara un uomo semplice, abbia scelto un cammino complicato, irto di rovi. La prima spina è la complessità in sé del tema storico-politico toccato. La seconda spina è la delicatezza insita nello svelamento di documenti che mettono a nudo gli atti politici di personaggi realmente esistiti, chiamandoli direttamente in causa con nomi e cognomi. E, un po’ come Dante nella Divina Commedia, l’autore non mancherà a ripartirli fra gironi e cieli. La terza spina (la più sanguinosa) è l’intento di levarsi ad opera summa. Dunque “C’ero anch’io” non è lo spazio per ancora un’altra mera e sublime ricapitolazione. Niente affatto. Altre opere certosine hanno già ben raccontato circa i tumultuosi eventi che ebbero luogo all’altezza della punta più meridionale dello stivale italico, ad un certo punto, nel Dopoguerra. E’, piuttosto, lo sforzo generoso di uno sguardo oggi vegliardo da sempre perennemente impegnato a compilare proposte costruttive per il futuro del Sud, fino ad assurgere in invito verso le nuove generazioni a non commettere gli stessi errori del passato e a ricercare un nuovo modo di vivere.