Grande successo in Calabria per la dodicesima edizione del RockOn Martirano Lombardo
Locanda delle Fate
Era il 1977 quando, in piena esplosione punk e disco, la Locanda delle Fate diede alla luce quello che è unanimemente riconosciuto come il canto del cigno del prog italiano: “Forse Le Lucciole Non Si Amano Più”, autentica pietra miliare amata da intere generazioni e venerata anche all’estero. Considerato all’epoca un po’ démodé e fuori tempo massimo, l’album non ebbe molto successo, oscurato dalle nuove tendenze e poco supportato da una casa discografica, la Phonogram, fin troppo impegnata a inseguire l’airplay radiofonico. Il disinteresse crescente verso il prog e le varie defezioni sancirono, nel giro di tre anni, lo split del gruppo, mettendo la parola fine alle ambizioni musicali dei vari componenti. Era già successo a tanti: è accaduto a Sixto Rodriguez, persino ai Velvet Underground, poteva capitare anche a un gruppo di giovani sognatori desiderosi soltanto di suonare la propria musica.
Nel mezzo, composizioni recentissime (“Mediterraneo” e “Lettera Di Un Viaggiatore”) e quelle “lucciole mancanti” ripescate nel 2012 per “The Missing Fireflies”: “Crescendo” e, soprattutto, “La Giostra”, come sempre introdotta dalla splendida “Sequenza Circolare” di Maurizio Muha.
L’epopea della Locanda della Fate è stata poi ripresa il giorno successivo all’Abbazia di Santa Maria di Corazzo di Carlopoli nel corso della presentazione del libro di Luciano Boero, “Prati di Lucciole Per Sempre – Locanda delle Fate e dintorni”, in cui l’autore, accompagnato da Giogio Gardino, Leonardo Sasso e Max Brignolo, ha ripercorso gli highlights del suo brillante excursus sulla storia della prog band astigiana. Un resoconto appassionato, raccontato da Boero con il piglio del romanziere consumato e impreziosito, per l’occasione, da immagini di repertorio, proiezioni e break musicali in acustico (“Non Chiudere A Chiave Le Stelle”). La presentazione, organizzata in collaborazione con Suoni del Sud Lamezia e Progetto Gedeone, è stata curata da Francesco Sacco.
Carl Verheyen
Chitarrista, compositore, arrangiatore, cantautore e didatta inserito da Guitar Magazine tra i “Top Ten Guitarist” e da Classic Rock nella classifica dei “Cento Migliori Chitarristi”, Verheyen è arrivato a Martirano Lombardo nell’unica tappa calabrese del suo “Essential Blues Tour”, per un’entusiasmante retrospettiva su una carriera monumentale caratterizzata, al di là dei Supertamp, da quindici album da solista, da diverse nomination ai Grammy Awards, dalla composizione di colonne sonore per svariate produzioni hollywoodiane (“Milagro” di Robert Redford, “Il Corvo” di Alex Proyas o “Dal Tramonto all’Alba” di Robert Rodriguez, giusto per citarne qualcuna) e dalla collaborazione con artisti del calibro di B.B. King, Little Richard, Josè Feliciano, Bee Gees, Christina Aguilera, Belinda Carlisle, Cher e Dolly Parton.
Accompagnato da Alan Thomson al basso, Darby Todd alla batteria e Marco Corcione alle tastiere, il chitarrista californiano ha fatto sfoggio di un background enciclopedico in grado di mescolare con incredibile maestria sonorità e linguaggi estremamenti differenti (jazz, fusion, blues, country, bluegrass) confluiti in uno stile originalissimo ben assecondato da una band in forma smagliante (in particolare, il batterista Darby Todd).
Che Verheyen fosse di un altro pianeta si è intuito sin dalle primissime battute, da quella lunga improvvisazione sfociata in una “Little Wing” da applausi, sorprendente preludio di un set che affonda le sue radici nella tradizione americana, riletta con classe sopraffina da uno dei chitarristi più completi al mondo. Quello a Jimi Hendrix, infatti, è soltanto il primo di una lunga serie di tributi a giganti del rock e del rhythm’n’blues che hanno influenzato generazioni e generazioni di musicisti: è il caso di Freddie King con “Someday After Awhile (You’ll Be Sorry)”; Peter Green, genio (e sregolatezza) del blues brittanico e leader dei primi Fleetwood Mac, con il classico “Oh Well”; Ray Charles, omaggiato con un corposo medley lanciato da “I Got A Woman”, e persino Sam & Dave con “I Take What I Want” nell’infuocata versione di Rory Gallagher. Spazio, ovviamente, anche alla sua ricca produzione solista con “Little Swamp”, “No Walkin’ Blues”, la superba “New Year’s Day” (uno punti più alti dell’intero set) e, soprattutto, “Diamonds”, slow blues d’antologia trasformato nel finale in una travolgente jam session in pieno stile Allman.
Lo sbalorditivo live di Carl Verheyen diventa così la classica ciliegina sulla torta di un’altra edizione memorabile che certifica, una volta di più, la leadership del RockOn nel filone classic rock calabrese. L’appuntamento è già fissato per il prossimo anno, anche se, nel frattempo, l’inverno martiranese potrebbe già riservare qualche sorpresa.