Messina, Adamo propone la resa dei conti: mandiamo a casa Accorinti. Il Pd fa orecchie da mercante

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Il Consiglio è a un bivio: o sfiducia il primo cittadino, o dimostra la propria “complicità e solidarietà” con questa Giunta. Non esistono mediazioni possibili

L’ipotesi circolava da tempo: l’idea che qualcuno potesse presentare una proposta di sfiducia verso l’Amministrazione Accorinti era nell’aria. Mancava, finora, l’evento clou, l’episodio scatenante che potesse indurre a una seria riflessione l’intero consesso civico. Il sindaco, più o meno consapevolmente, ha scoperto la guardia: la diserzione in Aula contro i capigruppo all’indomani del “tendagate” è stata l’occasione perfetta per discutere complessivamente del suo operato, valutando lo stridente contrasto fra una città che non naviga in buone acque e un’Amministrazione che non ammette critiche.

Così dai banchi dell’opposizione, precisamente da quelli di Vento dello Stretto, si è ragionato in maniera consequenziale: Renato Accorinti ha fallito la sua missione di cambiamento e proseguire con quest’agonia non è proficuo per la comunità. Piero Adamo ha messo nero su bianco il malcontento del civico consesso, invitando i colleghi in Aula a firmare “la cacciata” del primo cittadino. Il perché è presto detto: dal risanamento mancato ai tir nel centro, dalle strade dissestate alla sporcizia dilagante, dal declino della vocazione turistica alle inefficienze sulla gestione dei programmi europei, dai servizi sociali alla solidarietà con gli antagonisti, giù fino alla pervasiva presenza di ambulanti abusivi nelle strade e alle rotture umane o politiche con Prefetto, Curia e chi più ne ha più ne metta: Accorinti è ormai un uomo solo al comando, un ammiraglio frastornato che tenta di condurre la nave in porto, sbagliando direzione con cocciuta noncuranza.

Renato Accorinti – Foto LaPresse

A fronte di tutto ciò, le critiche finora erano state sterili. Si è discusso molto sull’istituzione “scalza”, sulle magliette free Tibet e sulle bandiere della pace, ma i nasi arricciati dei consiglieri non hanno mai portato a un redde rationem, a una sorta di resa dei conti conclusiva. Non a caso Accorinti ha ciclicamente alzato il tiro, chiedendo al Consiglio di mandarlo a casa qualora l’organo ritenesse la sua azione nociva per l’interesse cittadino. Ma a Palazzo Zanca nulla si è mosso: l’Udc si è progressivamente defilata dalla scena, chiedendo (ma a chi poi?) se non sia il caso di riflettere su un game over anticipato per la Giunta. Il Pd, vero azionista di maggioranza di quest’Amministrazione, ha nicchiato, facendo intuire che sfiduciare Accorinti oggi equivarrebbe alla concessione di un alibi domani, in vista della futura campagna elettorale, ed esortando altresì il primo cittadino a rassegnare semmai di sua sponte le dimissioni per manifesta incapacità. Come no.

Una posizione difficile da comprendere, a meno che non si tenga conto dello stato confusionale del movimento renziano in città. Dopo la dipartita politica di Genovese e il commissariamento della segreteria Ridolfo, il Pd si muove senza guida, senza leader, senza candidati unitari e col fiato sul collo dei dirigenti palermitani. Andare alle elezioni ora vorrebbe dire aprire a una guerra fratricida che potrebbe riconsegnare la città nelle mani delle destre, favorendo direttamente l’ascesa di Ardizzone o di Picciolo e la loro conquista di nuovi spazi, di nuovi consensi. Il Pd, insomma, teme di perdere la propria centralità: per questa ragione l’idea di mandare a casa il primo cittadino non gode di tanti estimatori. Meglio logorarlo dall’interno, cuocerlo a fuoco lento nella speranza che i suoi piani contabili siano bocciati dalla Corte dei Conti. Piccolissimo particolare: in mezzo c’è una città che brancola nel buio, talvolta in senso letterale. Chi sta fuori dal Palazzo non capisce il senso di questi giochi di potere: o Accorinti ha fallito, e allora bisogna chiudere quest’esperienza di governo; o il primo cittadino sta facendo il possibile, e allora tanto vale andare avanti. Tentare improbabili mediazioni quando si è davanti a un bivio vuol dire generalmente sbattere contro le indicazioni stradali e dimostrarsi cocciuti come il sindaco, in maniera uguale e contraria. Il peggior spot che fa tornare in mente i ricordi nefasti dell’Ancien Regime e i peggiori vizi di “quelli che c’erano prima”.

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