Il favoloso Lido di Reggio: quando le ragazze avevano la coda di cavallo…

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di Kirieleyson – Sta arrivando l’estate. Sta tornando il caldo e sul  Lungomare di Reggio stanno riaprendo i lidi. Non tutti ricordano che però, una volta,  c’era un solo “Lido”: il Lido comunale. Per la verità esiste ancora.  Ma quello di oggi (ed anche di ieri) non è quello che invece fu fino a diversi decenni fa.

Il Lido di Reggio nacque alla fine degli anni ’20,  per volontà dell’allora sindaco Marchese Genoese Zerbi, ammiraglio della Regia Marina e grazie ad un gruppo di ingegneri cittadini, che donarono (!!) al Comune  la società che avevano fondato alcuni anni prima, avente appunto per oggetto la realizzazione e la gestione di un stabilimento balneare nella rada Giunchi.

Il Lido fu concepito e costruito sullo stile dei lidi che già cominciavano a diffondersi  da un po’ di tempo nel Centro e Nord Italia, nelle più note città turistiche e che erano frequentati  dai ceti più abbienti. Infatti, all’epoca,  i  bagni di mare erano una consuetudine per pochi.

Anche a Reggio il Lido fu  per decenni il luogo d’incontro estivo della cosiddetta gente benestante, tra appuntamenti in spiaggia la mattina, feste, sfilate di moda, balli e concerti la sera.

Le serate del Lido, per i ragazzi e le ragazze del tempo (che allora si chiamavano rispettivamente giovanotti e signorine) era una delle poche occasioni per ballare.

Agli occhi di chi non frequentava il Lido, quello era un luogo snob e irraggiungibile, per molti bigotti era addirittura un luogo libertino.

Tanto per avere un’idea di come alcuni  esterni vedessero il lido, una volta, nel dopoguerra, durante la tradizionale festa di settembre, fu allestito un carro allegorico dedicato appunto al Lido, in cui lo stabilimento balneare veniva raffigurato come una specie di  luogo di perdizione, popolato infatti da diavoli con relative forche!

Ma, già nei primi anni ’60, l’epoca d’oro del Lido era già terminata. E da lì a pochi anni il Lido sarebbe stato ricostruito, tra tante aspettative annunciate, più ampio e moderno, frequentato da molta più gente,  ma inesorabilmente senza una connotazione ben precisa: né carne, né pesce. Ma,  soprattutto, senz’anima.

La  storia di quello che fu uno dei più belli stabilimenti balneari dell’Italia Meridionale è riportata, con dovizia di dati e di  particolari, nel libro di Agazio Trombetta – editore Culture –  intitolato “Reggio e il suo Lido”.

Ma io qui non voglio  parlare di dati, ma solo di sensazioni e di ricordi; quelli di un bambino di pochi anni che d’Estate visse intensamente la vita del Lido all’epoca del suo epilogo.

Il Lido era percorso da tanti vialetti alberati con file di oleandri, che scorrevano tra le cabine di legno dipinte a strisce oblique bianche e amaranto.

Le cabine venivano  chiamate “baracchette” ed ogni baracchetta aveva la sua ampia veranda, nella quale molti gruppi familiari usavano anche pranzare e cenare (coperti da un paravento).

Sul lato a monte,  per tutta l’estensione del Lido, si ergeva  una fila di alberi altissimi, all’ombra dei quali era possibile trovare sempre un posto al fresco, anche ad Agosto e a mezzogiorno. Ricordo  il fruscio delle foglie sotto il vento dello Stretto, quasi sempre presente.

Noi andavamo al Lido la mattina verso le 10, accompagnati da mio padre, con la Topolino prima e con la 600 successivamente, che veniva a riprenderci i verso l’una. Nei giorni festivi ed ogni tanto ci stavamo tutto il giorno, per rientrare a casa dopo le 22, giusto il tempo di andare a letto (ma io e le mie ancor più piccole sorelle già ci eravamo addormentati  in macchina).

Al Lido c’era la “Rotonda”, una costruzione circolare costruita sul mare e dotata di una vetrata su tutto i il suo perimetro;  di notte era illuminata e si rifletteva sul mare. La Rotonda aveva un bar con i tavolini disposti anche sulla balconata esterna, un metro sul pelo dell’acqua. Noi bambini, di mattina, ci tuffavamo in mare da quella balconata, tra il disappunto di chi, vestito normalmente, veniva   inesorabilmente bagnato dagli spruzzi. I giovani più temerari si tuffavano invece dal terrazzo superiore, indifferenti allo sguardo ammirato di noi bambini, ma molto attenti a quello delle “signorine”.

A proposito delle ragazze: all’epoca, per me, maschietto ancora abbondantemente acerbo, mi sembrava appartenessero ad un altro pianeta, distante anni luce dal mio. Ricordo che ridevano solo con discrezione, magari coprendosi la bocca con la mano. Come segno di modernità, o di trasgressione, alcune portavano i capelli a “coda  di cavallo”.

Sulla spiaggia c’era un  trampolino, costruito per andare incontro ai gusti di tutti: aveva infatti tre piani ed ognuno poteva quindi scegliersi l’altezza preferita. Anche per la zona alta del trampolino vigevano gli stessi atteggiamenti usati per i tuffi dal terrazzo della Rotonda.

A qualche centinaio di metri dalla spiaggia, a mare, c’era la Boa, una immensa boa cilindrica ubicata al centro della rada Giunchi. La Boa, viscida e arrugginita, rappresentava per i giovani una prova importante, il cui  superamento consentiva loro di entrare a far parte di una cerchia ristretta: quelli che erano riusciti ad andarci a nuoto almeno una volta.

Noi bambini ci andavano ogni tanto, non a nuoto, ma con la barca  a remi, portati dai grandi e, come segno di conquista, volevamo sempre salirci su.  Tutte le mattine d’Estate era possibile notare gruppi di giovani e di bambini seduti sulla Boa.

Al  Lido c’era la “Pista”, un’area recintata  dedicata agli spettacoli ed alle serate danzanti (la pista era appunto quella da ballo). La barriera visiva di delimitazione era formata dal verde naturale delle piante che ne  popolavano l’intero perimetro. Di giorno era un luogo fresco e profumato. Di notte non me lo ricordo; i bambini non ci entravano.

Una palazzina bassa ubicata nella zona centrale del Lido ospitava la direzione, il bar, l’infermeria (di cui noi bambini eravamo clienti abituali a causa delle frequenti scalfitture, curate sempre con pennellate di tintura di iodio); al primo piano c’era il ristorante.

Un tunnel percorreva tutta la lunghezza della  palazzina, sotto il ristorante; era buio e fresco ad ogni ora del giorno e le sue pareti erano perennemente impregnare dell’odore, unico ed indimenticabile, delle pizze prodotte nel forno ubicato al suo interno.

Il Lido aveva perfino il cinema, l’Arena Lido appunto.

Negli anni ‘50, Il direttore del Lido era il Cav. Gaetano Melacrino, che ricordo perennemente accompagnato da bastone e paglietta, sempre con  il piglio burbero che incuteva timore e rispetto: io, a cinque anni, ero tra i pochissimi che gli davano del tu, ma solo perchè era mio zio.

Il vice direttore era il  Sig. Fortugno,  impiegato del Comune che per  hobby faceva il guardalinee (ma in serie A) e  che fu poi,  a sua volta,  il  direttore per i  decenni successivi,  divenendo il simbolo stesso del Lido dell’età moderna.

Un’istituzione del Lido era il  bar Ferrara, dispensatore di coni e brioche con gelato (i gusti erano rigorosamente solo quelli “canonici”: nocciola, cioccolato, torrone e crema reggina).

Tra i personaggi del Lido ricordo un tale Bombino, un buon uomo dai capelli bianchi che lo si trovava sempre in giro di qua e di là, apparentemente sempre indaffarato e di cui non ho però mai saputo quale fosse ruolo.

C’erano poi  i “marinai”, che in pratica erano  i bagnini: ed  infatti stazionavano sulla spiaggia durante il giorno, per  scomparire  inesorabilmente  al tramonto;  gente  senza età e dalla pelle rugosa e rinsecchita, segno inequivocabile che avevano passato la loro vita sotto il sole ignorando l’esistenza delle creme idratanti.  Una delle loro attività era quella di piantare gli  ombrelloni, operazione che espletavano con un grosso martello e nel mutismo più totale. I marinai non erano loquaci nemmeno quando affittavano le loro barche di legno.

Noi bambini, quando non eravamo in acqua, giocavamo. Noi maschietti giocavamo a costruire castelli di sabbia e “piste” per la corsa delle palline, a palla o alle bocce; i più grandi a tamburelli. Insieme alle femminucce si giocava a “nascondino” o a “scintilla”.

Le femmine,  che giravano solo in gruppo (come avrei visto fare poi ai turisti giapponesi  durante i miei futuri viaggi giovanili),  avevano anche dei giochi che facevano solo tra di loro. Oltre che il gioco dei cerchietti  (che venivano lanciati in aria facendovi scorrere all’interno due bacchette di legno, che poi servivano per riprenderli a volo) , prediligevano “mosca cieca” e il gioco della corda, cui mia cugina Mariella, che aveva qualche anno più di me, mi faceva talvolta partecipare.

Lei e le  sue amiche mi sembravano grandi e quindi per me, a cinque o sei anni,  i giochi cui esse giocavano, più che giochi da femmine,  mi sembravano giochi da grandi. Forse per questo motivo non ho mai osato chiederle perché a mosca cieca cantilenavano sempre, fino alla nausea   “sono una povera cieca /  son caduta nel fosso   / alzarmi non posso / aiutatemi voi”, o perché, nel gioco della corda, ripetevano continuamente “pera, arancia, fragola e limone”. Per me infatti quelli  erano dei rituali esoterici, incomprensibili, cui mio malgrado mi adeguavo, senza fare domande,  pensando di essere troppo piccolo per poterne comprendere il significato.

La prima cosa che arrivando al Lido si chiedeva al primo conoscente che  si incontrava era sempre la stessa:  com’ è l’acqua? E la risposta aveva solo due opzioni: “un brodo” oppure “un ghiaccio”.

Nello Stretto l’acqua non è mai la stessa, anche a distanza di ore. Ma  quella  domanda era solo una formale consuetudine, poiché  la risposta non produceva alcun  effetto. Infatti poi si andava sempre e comunque a buttarsi nell’acqua, qualunque fosse la sua temperatura, per restarci  fino a quando l’ennesimo ordine di uscire impartito dalle nostre mamme non  si trasformava in una circostanziata minaccia di ritorsioni a lungo termine.

Il Lido aveva anche un suo regolamento;  che era esposto nell’aiuola vicino l’ingresso principale. Ricordo che, negli anni ’50, oltre al divieto di  calpestare le aiuole (e nonostante Giovanardi non avesse avuto ancora modo di diffondere il suo pensiero),  vigeva quello, per le donne, di indossare  il costume a due pezzi; ma non tutte le donne osservavano la regola e, per la verità, nemmeno le autorità si prodigavano per farla rispettare.

Molti anni dopo, quando ero studente a Torino, conobbi un signore di Perugia (lo zio di un mio compagno di corso) che negli anni ’50, da giovane, faceva il rappresentante in Calabria. E mi raccontò, con mia grande meraviglia, che era talmente innamorato del Lido di Reggio, che d’estate, alla fine della sua giornata di lavoro, ovunque si trovasse,  era disposto a farsi anche quattro ore di macchina (l’autostrada ancora non c’era) per prendere albergo a Reggio e poter trascorrere la serata al Lido.

Nel prosieguo del colloquio mi parlò poi, con evidente nostalgia e con tanto di aneddoti, di quanto le giovani donne reggine che  frequentavano il Lido fossero cordiali e disponibili nei confronti dei  giovani forestieri che parlavano con l’accento “di sopra”.

Allora mi passò la meraviglia e in cuor mio pensai: altro che code di cavallo!

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