Mafia Capitale: il cancro nascosto dietro il “sistema Buzzi”

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Le zone d’ombra della burocrazia hanno fatto dilagare l’illegalità

Campidoglio - Foto LaPresse
Campidoglio – Foto LaPresse

Prima di associare il termine “mafia” alla parola “Capitale“, insozzando inevitabilmente l’immagine internazionale di un paese, forse i media avrebbero dovuto riflettere maggiormente sulla portata effettiva dell’inchiesta.

Le intercettazioni pubblicate a mezzo stampa lasciano l’amaro in bocca: dagli scambi di battute fra i protagonisti emerge uno squallido ritratto del mondo dei servizi in Campidoglio. Dire, però, che a Roma esiste una banda di mariuoli dall’evidente profilo criminale, la quale banda lucrava attraverso meccanismi corruttivi sulle prestazioni erogate dal Comune, è un conto; sostenere che un’associazione a delinquere dedita alla criminalità organizzata tenesse in scacco la Città Eterna è tutta un’altra storia.

Naturalmente saranno le aule giudiziarie il teatro per esaminare i fatti, ma è difficile immaginare che in assenza di affiliazione, senza cioè riti di tipo familistico, tacitamente potessero sorgere quei legami “mafiosi” che, ad oggi, hanno attirato la curiosità delle testate internazionali. Fin qui il processo.

Pignatone - foto LaPresse
Pignatone – foto LaPresse

Non ci soffermeremo, in questa sede, sulle responsabilità di taluni esponenti delle istituzioni: esse andranno accertate dalla magistratura. Vogliamo riflettere, invece, sulle responsabilità della politica tout-court, intesa come quel meccanismo decisionale che consente ad un tipo come Buzzi di entrare nelle stanze del potere per contrattare posizioni di rendita con questo o quell’esponente di partito. Com’è stato possibile tutto ciò? Ci sono almeno tre fattori da tenere in considerazione.

Primo. Il sistema di appalti col meccanismo del ribasso, le realtà municipalizzate, le società a partecipazione pubblica rappresentano delle metastasi del sistema. Non soltanto l’amministrazione poco trasparente delle spese crea debiti esorbitanti per gli enti locali, essa permette a persone di bassa risma di elevarsi a soggetti in grado di agire in nome e per conto del Comune.

Ignazio Marino - foto LaPresse
Ignazio Marino – foto LaPresse

Secondo. Maggiore è il numero di passaggi che bisogna compiere affinché una determinata pratica sia posta in essere, maggiori sono le possibilità d’incappare in quelle perversioni sistemiche che portano singoli soggetti ad oliare il processo attraverso pratiche illecite e immorali. Se anche l’assessore Tizio non è personalmente responsabile del malcostume praticato dalla Coop di Caio, il fatto che la pratica sia passata da Sempronio, Tindaro, Patrizio, Carmelino e via discorrendo complica maledettamente la faccenda. Qui subentra anche un meccanismo di autotutela dei corrotti, che attraverso questa serie assurda di passaggi annacquano la propria responsabilità politica, celandola sotto le contraddizioni normative.

Di Battista - foto LaPresse
Di Battista – foto LaPresse

Terzo. La favoletta dell’aggravio delle sanzioni quale mossa risolutiva contro questo malcostume va bene per chi vuole fare campagna elettorale. Il problema è un altro: in un paese dove le carceri sono stracolme e la certezza della pena per i reati minori rappresenta una proiezione onirica dei cittadini onesti, pensare di sbattere al gabbio un concussore o un corrotto è eticamente ineccepibile, ma difficilmente realizzabile. E questo lo scriviamo ivi considerati i tempi della giustizia ordinaria. Non vanno aumentate le pene perché tanto gli aggravi resterebbero lettera morta, sarebbe uno specchietto per le allodole. Vanno inibiti i margini di discrezionalità entro cui gli amministratori, i dipendenti e perfino le cooperative operano.

Poche regole, chiare e precise. Perché non discutiamo di questo?

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