Da Milano a Messina: i No-Expo e la vera resistenza

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La battaglia civile di chi tiene alla città contro chi propugna lo sfascismo e la violenza

LaPresse/Marco Alpozzi

Se andate in giro per il mondo a dire che l’Italia è un paese caratterizzato dall’iper-liberismo, state pur certi che i vostri interlocutori, col sopracciglio alzato alla Carlo Ancelotti, vi daranno le migliori indicazioni per raggiungere la clinica psichiatrica più vicina. Eppure, a dispetto di ogni realtà, i manifestanti No-Expo che hanno imbrattato Milano, mettendo a soqquadro mezza città, ne sono fermamente convinti: l’esposizione è il tripudio del cemento, delle infiltrazioni mafiose, dello sfruttamento del lavoro, delle multinazionali. E’ la stessa solfa, trita e ritrita, che dai tempi di Mario Capanna imperversa nei salotti buoni e fra i centri sociali, contagiando – col proprio campionario d’idiozie – una fascia più o meno estesa di forze antagoniste.

Le dichiarazioni di Mattia Sangermano, il giovane black bloc intercettato dai microfoni di Tgcom, sul “bordello necessario” per far sentire la propria voce non costituiscono un sintomo, quanto il volto stesso della patologia. Dietro l’etichetta della “controinformazione“, diffusa da sedicenti collettivi liberi che di libero hanno soltanto la nomea, si cela un malessere sociale legittimo ma strumentale. Dire che le banche, i governi, gli istituti finanziari e i grandi imprenditori spezzano le schiene dei lavoratori può costituire forse un’attrattiva sotto il profilo neo-marxista, ma è una valutazione dissociata dalla realtà. Parlare di grande capitale in Italia è ridicolo: d’imprese con fatturati esorbitanti, capaci di produrre a livelli competitivi sul mercato internazionale, la nostra storia patria è quanto mai avara. C’è stata la Fiat, per un certo periodo, ma fino all’avvento di Marchionne l’azienda si è persa nei meandri delle lotte intestine allo Stivale, senza guardare al mercato globale. E le banche, “salvate dallo Stato”, hanno acquisito tanto di quel debito pubblico che se affondassero ne pagheremmo collettivamente lo scotto, al netto del qualunquismo tanto al chilo.

Cosa c’entri, poi, tutto questo con l’Expo è un mistero della fede.

LaPresse/Marco Alpozzi

L’esposizione, non ci stancheremo di ripeterlo, è una vetrina ed un’opportunità per il paese e può fruttare molto in termini di PIL. Capiamo che chi promuove la decrescita felice consideri tutto ciò una quisquilia, ma come poi si possa rilanciare la tematica del lavoro a dispetto degli indicatori economici ci sfugge.

In un paese dove le tasse strozzano commercianti ed esercenti, alcuni benpensanti credono che sfasciare la vetrina di una gioielleria sia un atto rivoluzionario, non un’azione da codice penale e da ceffoni familiari. Non potendo individuare un-nemico-uno che sia credibile, la colpa è del sistema e dello Stato inadempiente. La realtà è un po’ più complessa di come la si vuol dipingere.

L’Italia, però, non è un paese marcio nel midollo spinale: esistono ancora delle forze che credono ad un futuro ricco di opportunità. Sono quei milanesi che hanno occupato le piazze per dire no alla violenza, per dire che chi giustifica le barricate armate è un criminale come gli altri, che la libertà di manifestazione non è libertà d’insurrezione. Anche a Messina gli incappucciati hanno trovato degli emuli, dei professionisti della protesta che hanno imbrattato muri e monumenti storici con scritte del tipo “Kobane ovunque” o “No Muos no Expo“. Epperò anche a Messina esistono delle forze sane: un plauso merita l’iniziativa di Atreju, Vento dello Stretto, del network ZDA e dell’associazione ambientalista Fare Verde: queste sigle hanno deciso di ripulire la città violata dai graffiti, restituendo il decoro urbano sulla falsariga del movimento spontaneo Retake Milano. Forse è questa la vera resistenza.

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