“Alfano e Schifani presero i voti di Cosa Nostra”: così D’Amico fa traballare il processo

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Le dichiarazioni rese dal pentito sono destinate ad accendere polemiche: l’ex mafioso ha citato Alfano, Schifani e Andreotti

Foto LaPresse
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Di Carmelo D’Amico sappiamo che era affiliato a Cosa Nostra, che come “uomo d’onore” ha confessato 30 omicidi e che reggeva gli affari della Cupola nel messinese e a Barcellona. Di Angelino Alfano sappiamo che è ministro dell’Interno, che è stato ministro di Grazia e Giustizia e che ha promosso un inasprimento delle pene per i mafiosi, estendendo gli effetti del 41 bis. Prima di mascariare un uomo delle istituzioni a mezzo stampa, dovremmo quantomeno valutare il curriculum vitae del persone coinvolte.

D’Amico oggi è sfilato in tribunale, nel corso dell’udienza sulla trattativa Stato-mafia, e ha offerto le “sue” verità. Le virgolette non sono casuali: intanto il collaboratore di Giustizia si è limitato ad accuse di circostanza, spiegando come Alfano e Schifani abbiano beneficiato nelle urne del consenso della mala. Ammesso che ciò sia vero, ipotesi che gli interessati rispediscono al mittente, non è stato chiarito né se i due avessero intrattenuto rapporti coi vertici della Cupola, né se quei voti fossero arrivati su mediazione di terzi.

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Sapere quali politici Cosa Nostra ritiene promettenti non è cosa che attiene un processo, laddove si analizzano semmai le reti criminali ed il favoreggiamento. Di più: ciò che D’Amico rivela non arriva alla Procura per conoscenza diretta, ma per una testimonianza in carcere che gli sarebbe stata resa da Antonino Rotolo e Vincenzo Galatolo. Tanto fumo e poco arrosto, dunque. Il minimo indispensabile per concedere ad alcuni tribuni di processare simbolicamente pezzi del Parlamento, a dispetto delle prove.

Ma c’è un aspetto ancor più grossolano in questa vicenda: il pentito ha sostenuto che gli omicidi di mafia del ’92, quelli contro il giudice Falcone ed il suo storico sodale Paolo Borsellino, siano stati orchestrati da Andreotti e pezzi di servizi. Il che, se fosse vero, manderebbe in malora tutte le ricostruzioni di quella stagione perorate da garantisti e giustizialisti.

Fino a questo momento, infatti, si è sempre sostenuto che con l’omicidio Lima la Cupola avesse liquidato i propri rapporti politici, cercando nuovi referenti dentro e fuori il Parlamento.

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La corrente andreottiana non era più ritenuta affidabile perché non aveva saputo aggiustare l’impianto normativo per il maxi-processo, da qui la scelta di sabotare il Divo. Sì, perché con la strage di Capaci non saltò in aria solo un baluardo della legalità siciliana, saltarono anche le speranze di Andreotti di conquistare il Colle. La sua nomea chiacchierata gli impedì di avanzare pretese, così maggioranza e opposizione convogliarono le preferenze sul grigio Oscar Luigi Scalfaro.

Delle due l’una: o D’Amico sta parlando in libertà senza suffragare le sue tesi, il che la dice lunga sulla pretesa affidabilità di collaboratore, o va rivisitato l’intero impianto del processo sulla trattativa alla luce delle nuove dichiarazioni. Il che riporterebbe le autorità inquirenti all’anno zero.

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